Ipertensione arteriosa e attività fisica

La pressione arteriosa è la “forza” con cui il cuore pompa il sangue per farlo scorrere all’interno dei vasi sanguigni e si esprime in mm/Hg (corrispondenti all’altezza di una colonnina di mercurio che equilibra la pressione misurata).

Essa dipende dalla forza con cui il cuore si contrae e dalla resistenza che il sangue incontra nei vasi: più i vasi sono piccoli, o rigidi, più la pressione è elevata.

In genere, la pressione arteriosa si esprime con due valori numerici: il più alto, detto sistolico, si riferisce alla pressione con cui il cuore spinge il sangue nelle arterie, il secondo, detto diastolico, corrisponde alla pressione di rilascio. La pressione non è sempre costante: essa è più alta al risveglio e diminuisce durante il giorno; aumenta in caso di sollecitazioni fisiche ed emotive e normalmente aumenta con l’età, soprattutto perché i vasi perdono elasticità (a 20 anni, in media, la pressione è di 120/80, mentre verso i 60 anni sale a 160/90) (1).

L’IPERTENSIONE

Gli individui che soffrono di pressione alta, detta anche ipertensione, presentano una pressione con cui il sangue circola nelle arterie che è sempre superiore ai valori considerati normali (sistolica maggiore di 140 mmHg; diastolica maggiore di 85-90 mmHg). È sufficiente che uno solo dei due valori sia superiore alla norma perché si possa parlare di ipertensione. L’ipertensione è un fattore di rischio per molte malattie come l’ictus, la cardiopatia ischemica nelle sue varie forme (principalmente infarto e morte improvvisa), lo scompenso cardiaco (per il quale l’ipertensione è un rilevante fattore di rischio), la patologia vascolare in generale (per esempio l’arteriopatia periferica) e l’insufficienza renale (gli ipertesi hanno più probabilità di andare incontro, negli anni, ad insufficienza renale rispetto ai normotesi). Più elevati sono i livelli di pressione arteriosa, più alto è il rischio di sviluppare le malattie appena citate, indipendentemente dal sesso e dall’età del soggetto. Inoltre, il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, sia in termini di tempo che di probabilità, è legato alla presenza di uno o più fattori di rischio oltre che alla pressione alta. Recenti studi definiscono l’ipertensione arteriosa come il più frequente disordine cardiovascolare, presente in circa il 20% della popolazione adulta di molti paesi, in Italia la prevalenza della condizione ipertensiva va dal 21% al 25% circa (2).

In ambito medico sportivo, oltre che per tali aspetti epidemiologici e per la sempre maggiore diffusione dell’attività fisica tra la popolazione generale, l’ipertensione arteriosa acquista rilevanza in quanto fattore di rischio accertato, soprattutto in soggetti di sesso maschile e di età superiore ai 40 anni, di morbilità e mortalità cardiovascolare.

Nel 96% dei casi non è possibile identificare alcuna causa precisa di ipertensione; essa viene perciò definita essenziale. Nel restante 4%, l’ipertensione è legata alla presenza di altre malattie come ad esempio il diabete, lo stress o il fumo.Alcuni individui hanno più probabilità di sviluppare ipertensione come, ad esempio, coloro che hanno genitori ipertesi; coloro che sono in soprappeso sin da giovani; coloro che hanno valori normali di pressione, ma nella fascia alta di normalità. Esistono inoltre malattie, come il diabete, che si associano spesso all’ipertensione e così un individuo diabetico ha più probabilità di sviluppare ipertensione rispetto ad un individuo non diabetico e allo stesso modo un individuo iperteso svilupperà più facilmente il diabete. La pressione del sangue, salvo alcuni casi eccezionali, comincia a salire in modo subdolo e all’inizio non dà segni di sé; generalmente l’ipertensione viene scoperta in modo occasionale durante una normale visita di controllo. Raramente, e se è già piuttosto grave, l’ipertensione può provocare mal di testa (cefalea pulsante) nella zona posteriore del capo, vertigini, cioè senso di instabilità, e acufeni, cioè ronzii nelle orecchie. A volte si possono verificare epistassi (sanguinamento dal naso) e disturbi a carico della vista. L’ipertensione, a livello cardiaco, può provocare disturbi del ritmo, l’ischemia cardiaca (angina o infarto, espressioni di un ridotto apporto di sangue) e l’insufficienza cardiaca.

A livello del cervello, può essere causa di disturbi transitori (TIA – attacchi ischemici transitori) e di danni permanenti (ictus) alle cellule cerebrali, che non ricevono sangue ed ossigeno a sufficienza. L’ipertensione può inoltre provocare una lenta perdita di alcune funzioni quali quelle della memoria, dell’attenzione e dell’orientamento nello spazio e nel tempo (vasculopatia cerebrale). A livello del rene l’ipertensione produce una progressiva riduzione della funzione, fino a provocare, in alcuni casi, un’insufficienza renale cronica.

Chi scopre di essere iperteso, quindi, deve sottoporsi ad un’accurata visita cardiologica, necessaria per valutare lo stato di salute del cuore minacciato dall’ipertensione, correlata da un elettrocardiogramma e da un ecocardiogramma per evidenziare eventuali ingrandimenti dell’immagine del cuore.

Un esame dei vasi della retina (esame del fundus, non invasivo) può segnalare eventuali danni ai vasi cerebrali. L’ipertensione deve sempre essere tenuta sotto controllo.

Un’alimentazione equilibrata e uno stile di vita globalmente più sano possono bastare, di solito, per le ipertensioni iniziali. Quando il problema è più grave si deve iniziare un trattamento farmacologico anti-ipertensivo più appropriato. Oggi il trattamento antipertensivo si avvale di una grande quantità di classi farmacologiche tra cui le maggiori e più usate sono:

    • I diuretici e gli antialdosteronici che aiutano l’organismo ad eliminare i sali e i liquidi accumulati nei tessuti che circondano le arterie.
    • I beta-bloccanti che riducono la frequenza e la forza di contrazione del cuore.
    • Gli alfa-bloccanti che dilatano i vasi per facilitare il flusso sanguigno.
    • I calcio-antagonisti che, bloccando il trasporto di calcio nelle cellule, limitano la forza di contrazione del cuore e dilatano i vasi sanguigni.
    • Gli ace-inibitori e gli inibitori dell’angiotensina II che intervengono sui sistemi di regolazione della pressione arteriosa che si trovano nel rene.

I farmaci hanno effetto solo se assunti regolarmente e il trattamento non deve essere mai interrotto senza aver prima consultato il proprio medico (3).

EFFETTI BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULL’IPERTENSIONE

Non esistono dubbi sull’utilità dell’attività fisica nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Alcuni studi recenti hanno quantificato in 5-6 mmHg la diminuzione del valore pressorio sia sistolico che diastolico, favorita da un allenamento aerobico assiduo e continuativo. Gli effetti benefici dell’allenamento sono dovuti a numerosi fattori tra cui i più importanti sono:

1- Aumento del numero di capillari a livello muscolare e cardiaco (capillarizzazione) dove lo sviluppo del microcircolo coronarico allontana il rischio di angina ed infarto.

2- Maggiore apporto di sangue ed ossigeno a tutti i tessuti ed in particolare al muscolo cardiaco.

3- Riduzione dello stress sia transitorio che a lungo termine grazie al rilascio di sostanze euforizzanti che intervengono nella regolazione dell’umore (endorfine).

4- Riduzione delle resistenze periferiche sia grazie alla riduzione dell’attività di alcuni ormoni e dei loro recettori (catecolamine), sia grazie all’aumento del letto capillare.

5- Effetto positivo sugli altri fattori di rischio che l’attività fisica svolge su altre patologie che spesso si associano o causano l’ipertensione come diabete, dislipidemie ed obesità.

L’esercizio fisico utile per la prevenzione e la cura dell’ipertensione deve essere di tipo aerobico o cardiovascolare: deve cioè essere un’attività fisica di endurance svolta a media intensità (40-70% del VO2max).

Tipici esempi di lavoro cardiovascolare sono la marcia, il jogging, la corsa, il nuoto di resistenza ed il ciclismo. Per essere veramente efficace, l’esercizio fisico, va ripetuto per almeno tre volte alla settimana. Il massimo effetto benefico lo si ottiene con 5 sedute settimanali, anche se le differenze, in termine di calo pressorio, non sono significative. In questo caso migliorano invece i benefici sulla riduzione del peso corporeo e l’efficacia del sistema cardiovascolare. L’attività, per essere efficiente, deve protrarsi per almeno 20-30 minuti, possibilmente senza interruzioni. Anche in questo caso i risultati migliori si ottengono con un impegno superiore (40-50 minuti). Al di sotto dei venti minuti gli effetti positivi calano considerevolmente (4).

POTENZIALI RISCHI DELLA PRATICA SPORTIVA NELL’IPERTESO

La letteratura riporta una maggiore prevalenza di accidenti cardiovascolari durante l’esercizio fisico nell’iperteso rispetto alla popolazione generale. In effetti le variazioni emodinamiche che si verificano durante un esercizio di tipo isotonico come un aumento della frequenza cardiaca, della gittata sistolica e un aumento della pressione sistolica, comportano un notevole aumento del consumo di ossigeno del miocardio e possono costituire un rischio rilevante per il soggetto iperteso, soprattutto se è presente una ridotta riserva coronarica.

A ciò va aggiunto che lo sforzo aumenta la vulnerabilità ventricolare e che l’iperteso ha una maggiore prevalenza di aritmie ventricolari rispetto al normoteso. Ancora non è confermata la possibilità che il training fisico produca nell’iperteso un ulteriore aumento della massa ventricolare sinistra già ipertrofica, molti studi hanno osservato che allenamento ed ipertensione non producono effetti sommatori nei confronti dell’ipertrofia anzi l’allenamento sarebbe in grado di ridurre l’entità dell’ipertrofia nell’iperteso, probabilmente, per una riduzione del tono adrenergico più accentuata nelle attività di tipo aerobico (5).

CARDIOPATIA IPERTENSIVA E CUORE D’ATLETA

Oggi risultano essere ben chiare le modificazioni indotte sull’apparato cardiovascolare dall’ipertensione arteriosa, infatti sia l’impatto emodinamico, conseguente agli elevati valori pressori, sia la stimolazione di meccanismi neuroumorali, in grado di modulare la crescita di cellule muscolari lisce, possono essere implicati nella genesi delle alterazioni strutturali cardiovascolari. L’aumento prolungato delle resistenze periferiche e del postcarico, tipico dell’ipertensione arteriosa, stimolano un progressivo ispessimento della parete del ventricolo sinistro.

L’aumento della massa cardiaca e la comparsa di ipertrofia ventricolare, utili meccanismi di adattamento nelle fasi iniziali della patologia, predispongono, tuttavia, alla comparsa di importanti manifestazioni cliniche come lo scompenso cardiaco, le aritmie ventricolari e la cardiopatia ischemica. Il significato prognostico sfavorevole dell’ipertrofia ventricolare sinistra è valido sia quando la diagnosi è posta mediante ECG, sia quando essa è evidenziata dalla metodica ecocardiografica che risulta più specifica e ripetibile nel tempo. L’impiego dell’ecocardiografia ha permesso di descrivere diverse forme di adattamento geometrico del ventricolo sinistro all’aumento del carico pressorio.

Si parla di ipertrofia concentrica quando lo spessore della parete cardiaca aumenta a spesa del volume della cavità ventricolare sinistra mentre si parla di ipertrofia eccentrica quando la parete del ventricolo sinistro tende ad ispessirsi lontano dall’asse centrale della cavità. Alla luce di tali considerazioni è evidente come la cardiopatia ipertensiva possa talvolta porre problemi di diagnosi differenziale con il cuore d’atleta, dove il rimodellamento cardiaco è causato dall’aumento della portata cardiaca (che durante sforzo supera i 30 l/min) e della pressione arteriosa sistolica (che durante sforzo supera i 200 mmHg). Il primo dei dati da valutare è proprio anamnestico, infatti, non può essere considerato normale un quadro di aumento della massa ventricolare sinistra in un soggetto che da poco abbia iniziato un’attività sportiva o che pratichi sport in maniera incostante.

Ulteriori elementi differenziali derivano dallo studio della funzione diastolica. Nell’atleta le fasi di rilasciamento e riempimento ventricolare non subiscono variazioni in presenza di ipertrofia fisiologica del ventricolo sinistro, addirittura il riempimento ventricolare sinistro è pressoché completo già in protodiastole (6), mentre le proprietà diastoliche del miocardio ventricolare sinistro sono compromesse nell’ipertrofia patologica. Infine è da sottolineare come le modificazioni del decorso e del calibro dei vasi coronarici subepicardici, caratterizzati da aumento in lunghezza, riduzione di calibro e tortuosità, responsabili della riduzione di riserva coronarica nel soggetto iperteso, siano ben differenti dalle modificazioni normofunzionali del circolo coronarico indotte dall’esercizio fisico e caratterizzate da un aumento del calibro e da una riserva vasodilatatoria superiore rispetto ai soggetti non allenati. Queste caratteristiche assieme alla rapida regressione delle modificazioni morfofunzionali che si verifica con il detraining contribuiscono a distinguere l’ipertrofia fisiologica del cuore d’atleta dall’ipertrofia indotta dai patologici incrementi dei valori pressori (7).

CONCLUSIONI

Gli studi epidemiologici hanno da tempo confermato la relazione inversa tra pratica sportiva e livelli pressori. Sia in soggetti normotesi che ipertesi anche un’attività a modesto impegno cardiovascolare, purché praticata assiduamente, è in grado di sviluppare un significativo effetto ipotensivo. È buona norma praticare una completa visita medico-sportiva prima di iniziare una costante attività fisica per evitare di incorrere nei potenziali rischi che la pratica sportiva può indurre in un soggetto già a rischio come è soggetto iperteso rispetto ai soggetti sani.

BIBLIOGRAFIA

1. Mancia G.: Ipertensione e trombosi – tratto da www.trombosi.org

2. Guiducci U., Tortorella G.: Problemi cardiologici nella popolazione sportiva – da sz. 19 cap. “Cardiologia dello sport” da “Trattato di Cardiologia” volume 3° a cura dell’ANMCO

3. Mancia G.: Ipertensione e trombosi – tratto da www.trombosi.org

4. Ipertensione e attività fisica – tratto da www.my-personaltrainer.it

5. Guiducci U., Tortorella G.: Problemi cardiologici nella popolazione sportiva – da sz. 19 cap. “Cardiologia dello sport” da “Trattato di Cardiologia” volume 3° a cura dell’ANMCO

6. Ferritto L., De Risi L.: Il Cuore d’Atleta, oltre i limiti della natura (2008)

7. Guiducci U., Tortorella G.: Problemi cardiologici nella popolazione sportiva – da sz. 19 cap. “Cardiologia dello sport” da “Trattato di Cardiologia” volume 3° a cura dell’ANMCO

Dott. Luigi Ferritto
Dipartimento di Medicina Interna – Ambulatorio di Fisiopatologia dello Sport

Clinica “Athena” Villa dei Pini – Piedimonte Matese (CE)

LA LESIONE DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE

La lelegamento crociato anteriore sano body building squat esercizi per arti inferiorisione del legamento crociato anteriore (LCA) rappresenta un’ evento particolarmente importante nella vita di uno sportivo. Attualmente in Italia si eseguono circa 22.000 interventi di ricostruzione del LCA ogni anno, a fronte di un numero almeno doppio di lesioni.

Questo dato di per se risponde in parte ai dubbi di quanti si chiedano se sia veramente necessario sottoporsi ad un intervento chirurgico di ricostruzione legamentosa.

Un cenno di biomeccanica

Il LCA è uno dei principali stabilizzatori passivi dei movimenti combinati di rotazione e traslazione anteriore del ginocchio sotto carico. Classicamente la rottura avviene in fase di ricaduta da un salto in appoggio monopodalico e arrestando bruscamente una corsa (ad es. in fase di cambio di direzione), quando cioè la supervisione muscolare del ginocchio è minima.

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Segni e sintomi

I sintomi riferiti dal paziente sono peculiari: sensazione di cedimento o “fuoriuscita del ginocchio”; sensazione meccanica e sonora di qualcosa che si lacera all’interno o “crak”; dolore posteriore. I segni clinici di una avvenuta lesione rispecchiano fedelmente i sintomi riferiti dal paziente:

la tumefazione immediata (sangue nel ginocchio) con distensione della capsula articolare e tensione del recesso posteriore del ginocchio (dolore posteriore).

L’instabilità articolare rotatoria (Jerk test): imprimendo un movimento combinato di flessione del ginocchio e intrarotazione della tibia è possibile provocare una sublussazione articolare che si riduce nel ritorno in estensione. Infatti la mancanza del legamento non impedisce questo tipo di cinematica, che “in vivo” rappresenta la causa del cedimento sotto carico riferito dal paziente.

Diagnosi

La diagnosi è prima di tutto clinica. In seguito ad un trauma accompagnato da uno o tutti e tre i sintomi è opportuno rivolgersi ad uno specialista che effettuerà le manovre indispensabili per la diagnosi.

Molto frequentemente i pazienti eseguono autonomamente esami strumentali come la Risonanza Magnetica che di per se non è sensibile (capacità di identificare la lesione) e specifica (capacità di escludere la lesione) come l’esame clinico. Le mani e la sensibilità di un esperto consento in molti casi di effettuare una diagnosi di certezza anche senza un’integrazione strumentale.

Tuttavia la lesione acuta provoca dolore e rigidità antalgica del ginocchio, condizioni incompatibili con un esame clinico accurato. In questo caso, o se sospettate lesioni associate (menischi, cartilagine, fratture), può essere utile l’esecuzione in prima istanza di una RM o una RDX.

legamento crociato anteriore sano body building squat esercizi per arti inferiori

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Fig. a: legamento crociato anteriore sano

Fig. b: legamento crociato anteriore leso

Quando operare

Come detto in precedenza, il LCA è il principale responsabile della stabilità rotatoria del ginocchio. Premesso che sta al chirurgo, in accordo con il paziente (circa le sue richieste funzionali), decidere se operare o meno, il criterio dirimente è la presenza della instabilità rotatoria (Jerk test) e la sua gravità (+, ++, +++). Essa è meno grave, quando si manifesta solo durante gesti sportivi intensi (calcio, pallavolo) e più grave quando si presenta anche nella normale deambulazione.

La gravità o evocabilità della instabilità è condizionata da tre fattori: il trofismo muscolare (catena degli estensori e dei flessori del ginocchio, di cui sono stabilizzatori attivi), la presenza di lesioni associate (ad es. lacerazione traumatica della capsula articolare o dei legamenti collaterali) o la mancanza di parte o completa di uno o entrambi i menischi (in esito a precedenti interventi chirurgici per lesioni meniscali). Lo scopo dell’intervento è migliorare la qualità di vita del paziente in base alle sue richieste e prevenire in questo modo il verificarsi di ulteriori lesioni meniscali o condrali.

Le lesioni condrali sono quelle più comunemente associate ad altre lesioni come quelle del LCA (26% 1), con una importante variabilità tra le lesioni acute (23% 2) e croniche (54% 2).

Quando non operare

In linea di massima non è richiesto l’intervento chirurgico, se il paziente non presenta instabilità nella vita quotidiana e non desidera l’avviamento o il ritorno a sport a rischio (calcio, pallavolo, sport di contrasto, attività aerobica a corpo libero). Il solo intervento riabilitativo, in casi selezionati, basato sul miglioramento del controllo neuromuscolare del ginocchio (sviluppo della propriocezione) e sul potenziamento dei gruppi muscolari stabilizzatori attivi, può rappresentare una sufficiente alternativa all’intervento chirurgico.

In conclusione

Una lesione del LCA è un evento importante che richiede considerazione. Non tutte le lesioni necessitano di intervento chirurgico, laddove il supporto muscolare sia valido.

In ambito medico sportivo capita molto frequentemente di sentirsi porre questa domanda:

“Mi sono rotto il legamento crociato anteriore. Posso fare esercizi in palestra?”

L’attività attrezzistica nel body building amatoriale, (presse, squat, leg curl e leg extension) effettuata sotto supervisione di un istruttore competente, non rientra tra i fattori di rischio riconosciuti per l’instabilità articolare, laddove non imprima movimenti rotatori del ginocchio.


Bibliografia

1.Mats Brittberg, M.D., Ph.D.Karin Hjelle, M.D., Eirik Solheim, M.D., Ph.D., Torbjørn Strand, M.D., Rune Muri, M.D,
Articular Cartilage Defects in 1,000 Knee Arthroscopies
Arthroscopy: Vol 18, No 7 (September), 2002: pp 730–734

2.Shelbourne KD, Jari S, Gray T..
Outcome of untreated traumatic articular cartilage defects of the knee: a natural history study.
J Bone Joint Surg Am. 2003;85-A Suppl 2:8-16

 

Dr. Luigi Mossa
Medico Chirurgo specializzando in Ortopedia

L’instabilità della spalla

Quante volte abbiamo sentito le parole instabilità e lussazione… Vediamo, dunque, di approfondire cosa succede alla spalla, quando si manifestano tali situazioni.

Questo articolo vuole esporre – sinteticamente – le principali caratteristiche dei diversi tipi di lussazione della spalla e le strategie oggi utilizzate per la riduzione ed il trattamento di questo evento traumatico.

Che cos’è la lussazione?

E’ la perdita permanente dei rapporti reciproci tra i capi di una articolazione, in questo caso tra testa omerale e cavità glenoidea. In seguito all’evento “lussativo” si ha la lacerazione della capsula articolare e dei legamenti gleno-omerali (tre, distribuiti su un orologio immaginario centrato sulla glena, da ore 13 a ore 15 a ore 18). In base al tipo di lussazione e all’intensità del trauma si hanno lesioni accessorie, tra cui pressoché costante è la presenza della lesione di Hill Sachs, o frattura da impatto della testa omerale sulla glena.

Quanti tipi di lussazione esistono?

Essenzialmente si riconoscono due tipi di instabilità nello sportivo non agonista:

AMBRI: Atraumatic Multidirectional Bilateral Rehabilitation Inferior capsular shift.

Questo quadro clinico si manifesta tipicamente in soggetti giovani affetti dalla cosiddetta lassità costituzionale, caratteristica anatomica definita dalla prevalenza nelle fibre legamentose e tendinee di un collagene più elastico del normale, che rende le articolazioni molto più flessibili (in particolare nelle femmine, l’iperestensione delle dita, dei gomiti, etc).

In questi soggetti, la spalla ha un “gioco” che normalmente è assente (sublussazione), e predispone entrambe le spalle alla lussazione franca anche per traumi di lieve entità. La sublussazione (e quindi la lussazione), inoltre si verifica su 3 dei 4 quadranti dell’articolazione (anteriore, inferiore, posteriore). I soggetti affetti da questo quadro clinico tendono a lussare anche diverse decine di volte, provocando pericolose erosioni dei capi articolari, in particolare della glena, predisponendo ad una artrosi precoce e alla instabilità assoluta della spalla, anche nei comuni gesti della vita quotidiana

TUBS: Traumatic Unilateral Bankart Surgery.

L’acronimo di questo quadro clinico riassume le fondamentali caratteristiche della più classica lussazione che si verifica in soggetti “normali”: esempio classico, sciatore senza episodi precedenti di instabilità, che cade su un gomito. La lussazione in questo caso provoca oltre alla rottura di capsula e legamenti, anche la disinserzione del cercine glenoideo (lesione di Bankart), un bordino fibrocartilagineo che corre come un argine, uno spessore intorno alla glena a contenere la testa omerale.

lussazione spalla tac ecografia lesione body building allenamento AMBRIlussazione spalla tac ecografia lesione body building allenamento TUBS

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Quando operare?

Il trattamento delle lussazioni può essere si a chirurgico che riabilitativo, a seconda del tipo di instabilità e del numero degli episodi. Nel caso delle AMBRI il trattamento riabilitativo rimane il gold standard (seppur inficiato da un’elevata percentuale di recidive), dal momento che la chirurgia in questi pazienti è segnata da un’ elevato numero di fallimenti (per la scarsa qualità dei tessuti da riparare). La riabilitazione prevede il potenziamento degli stabilizzatori attivi della spalla (la cuffia dei rotatori, in particolare del sottoscapolare che rappresenta la barriera anatomica fondamentale, il “muro” anteriore della spalla), con elastici o pesi, in esercizi appropriati.

Il trattamento delle TUBS, al contrario della AMBRI è elettivamente chirurgico, e secondo gli studi internazionali più quotati degli ultimi anni, in particolare il primo episodio di lussazione merita la riparazione chirurgica (in artroscopia) data la elevata percentuale (> 50%) di recidive nel trattamento conservativo. E’ attualmente assai dibattuto il ruolo della chirurgia, in particolare della stabilizzazione artroscopica, in pazienti di età inferiore a 30 anni che abbiano subito una singola lussazione anteriore traumatica.

Il trattamento chirurgico del primo episodio prevede la reinserzione con piccole ancore del cercine e dei legamenti al fine di ritensionare i tessuti lacerati. Nelle lussazioni recidivanti viene invece eseguita una plastica della capsula articolare con accorciamento del tendinesottoscapolare in modo da porre anche in questo caso sotto tensione quella parte di articolazione resa lassa dalle ripetute lussazioni.

Laddove le recidive abbiano provocato erosioni importanti della cavità glenoidea, è possibile trasporre una pasticca ossea prelevata dall’ osso coracoideo (intervento di Latarjet) a rimpiazzare l’osso consumato, incrementando la superficie di contatto tra glena e omero. In tutti i casi il potenziamento muscolare della cuffia dei rotatori è una tappa fondamentale della terapia, senza il quale l’intervento chirurgico ha scarse possibilità di successo.

intervento spalla artroscopia lesione lussazione TUBS AMBRI

 

Dr. Luigi Mossa
Medico Chirurgo specializzando in Ortopedia

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)

Effetti dell’esercizio fisico nella trasduzione intracellulare dei segnali insulinici (Chakravarth 2002, Zierath 2000)

L’esercizio fisico acuto determina fra l’altro un aumento del trasporto del glucosio a livello della membrana del muscolo scheletrico tramite l’attivazione di un processo di traslocazione delle GLUT4 non insulino dipendente.

Così effetti immediati dell’esercizio fisico acuto sulla omeostasi glucidica avvengono primitivamente a livello del traffico GLUT4 piuttosto che tramite un’elevata trasduzione mediata dal meccanismo insulinico (IRS1 e 2, PI 3-Kinasi).

Parecchie ore dopo la fine di una seduta di allenamento, nel muscolo scheletrico persiste un aumento del trasporto di glucosio da aumentata sensibilità insulinica. Gli effetti dell’esercizio fisico sono osservabili anche fino a 16 ore dopo. Misurazioni effettuate in questo periodo riflettono dei cambiamenti a livello di espressione genica (aumentata o soppressa), che avvengono in risposta anche ad una singola seduta di attività motoria. L’allenamento sembra contribuire ad aumentare la sensibilità dei recettori insulinici mediante un incremento di attività dei mediatori coinvolti nella trasduzione del segnale post recettoriale. L’aumento del trasporto di glucosio insulino mediato sembra essere correlato ad un incremento dei mediatori a livello degli IRS1 e 2 e PI 3-Kinasi. Questo è particolarmente importante poiché l’attività degli IRS 1 e 2 e della PI 3-Kinasi è peggiorata nei pazienti affetti da diabete tipo 2 e nei soggetti obesi. L’esercizio fisico induce anche l’attivazione della GSK3 le cui conseguenze fisiologiche riguardano l’aumentata sintesi di glicogeno, anche se questo sembra essere solo una parte del meccanismo riguardante la regolazione glicogenosintetica. E’ molto probabile che la GSK3 abbia un ruolo nella regolazione dei processi addizionali metabolici e trascrittivi. Capire i meccanismi tramiti i quali si traducono i segnali biochimici e meccanici in risposte metaboliche e trascrittive è essenziale per una migliore comprensione degli adattamenti benefici del muscolo scheletrico in risposta all’esercizio.

Sistemi non insulino dipendenti in grado di potenziare il trasporto e il metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico (AMP Kinasi e MAP Kinasi) (Zierath 2002, Aronson 1997)

I due sistemi, AMPK e MAPK, vengono attivati nel muscolo scheletrico direttamente dalla contrazione dove sono in grado di determinare mediante meccanismi diversi significativi effetti per quanto riguarda il trasporto del glucosio attraverso la membrana ed intervenire direttamente sulla espressione genica di proteine in grado di migliorare il metabolismo dello zucchero. Esistono fra i due sistemi, la cui attività è completamente indipendente dal legame recettore insulina, delle interazioni reciproche, ad esempio l’AMPK è in grado di interferire con l’MAPK sui rispettivi substrati che andranno a regolare l’attività genica.

Attivazione dell’AMP proteina Kinasi.

L’AMP Kinasi è una proteina eterotrimerica composta da una subunità alfa catalica e da due subunità beta e gamma non cataliche. E’ attivata dallo stress cellulare associato ad una deplezione di ATP . L’AMPK è una proteina che ha il compito di monitorare lo stato energetico della cellula e di attivare eventualmente i necessari processi metabolici finalizzati a riportare ad un livello normale le concentrazioni dei fosfati altamente energetici. Pertanto un incremento di attività dell’AMP Kinasi è correlato con i seguenti parametri:

    • aumentata attività di traslocazione delle GLUT4 e quindi del trasporto del glucosio nel muscolo scheletrico;
    • aumentata ossidazione degli acidi grassi liberi nel muscolo scheletrico;
    • diminuita lipogenesi e lipolisi negli adipociti;
    • diminuita sintesi di acidi grassi liberi e colesterolo negli epatociti.

Recenti risultati scientifici hanno evidenziato il ruolo centrale dell’AMP Kinasi nella regolazione dell’omeostasi glucidica in risposta all’esercizio. L’attivazione dell’AMP kinasi (AMPK) è coinvolta quale importante mediatore che potenzia il trasporto del glucosio a seguito della contrazione muscolare scheletrica. Anche se l’attività dell’AMPK non sembra essere incrementata in risposta all’insulina, costituisce tuttavia nel muscolo scheletrico uno dei regolatori critici degli eventi metabolici in risposta all’esercizio. Recenti evidenze scientifiche documentano il ruolo centrale dell’AMPK nella regolazione dell’omeostasi glucidica in risposta all’esercizio fisico. Infatti, l’esercizio fisico di varia intensità , preferibilmente di tipo aerobico, induce un incremento di attività dell’AMPK intervenendo in questo modo nella regolazione dell’assunzione di glucosio in risposta all’esercizio. Poiché l’AMPK sembra incrementare il metabolismo del glucosio da meccanismi insulino indipendenti, questa via costituisce una strategia alternativa per incrementare la rimozione del glucosio dal circolo ematico negli stati di insulino resistenza, muscolare o generale.

MAPK (Mitogenic Activated Protein Kinasi) e trasduzione dei segnali (Widegren 2001)

E’ questo il secondo sistema che, a livello muscolare, è attivato dallo stress cellulare indotto dalla contrazione, dalle citochine, dai fattori di crescita. E’ costituito da tre sistemi separati posti in parallelo, cioè ERK 1/2, p38 MAPK e JNK la cui attività può dipendere sia da fattori locali che sistemici o da entrambi. In futuro si cercherà di identificare i vari componenti che intervengono nell’attivazione di questo sistema il cui fine ultimo è quello di regolare l’attività trascrittiva tramite i rispettivi fattori e quindi l’espressione genica associata al miglioramento intracellulare del metabolismo del glucosio. Il MAPK riveste un ruolo importante negli adattamenti a lungo termine che avvengono nel muscolo scheletrico a seguito dell’esercizio fisico ripetuto con importanti effetti anche per quanto riguarda la differenziazione e proliferazione cellulare.

CONCLUSIONI

Le conclusioni sono le seguenti. E’ possibile contrastare l’incidenza della patologia diabetica facendo svolgere alla popolazione un’adeguata attività fisica abituale in grado di modificare positivamente proprio quei fattori molecolari che risultano coinvolti nella genesi dell’insulino resistenza. Lo stile di vita attuale porta sempre più verso l’inattività fisica, cioè verso l’assenza di forme fisiologiche di stress cellulare in grado di mantenere l’equilibrio biodinamico, e quindi verso l’acquisizione, molto spesso inconscia, di uno dei principali fattori di rischio di malattia non solo del diabete tipo 2.

Figura 1: Trasduzione del segnale insulinico e della contrazione nel muscolo scheletrico

 

Figura 2: Cinetica delle GLUT4 nel muscolo scheletrico

Un doveroso ringraziamento a mia moglie Laura e a mio figlio Alberto per la loro insostituibile collaborazione tecnica.

BIBLIOGRAFIA

Aroson D, Violan AM, Dufresne DS, Zangen D, Fielding AR, Goodyear LJ.
Exercise stimulates the mitogen-activated protein kinase patway in human skeletal muscle.
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VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Ginetto Bovo
Dr. in scienze motorie, docente di educazione fisica

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)

Fattori recettoriali

Recettore per l’insulina (Gomperts 2002)

Il recettore per l’insulina è una glicoproteina costituita da due subunità alfa completamente extracellulari che legano l’insulina e da due subunità beta che possiedono attività tirosina chinasica.

Dopo il legame con l’insulina, a seguito probabilmente di un cambiamento conformazionale fra unità alfa e unità beta che si propaga attraverso la membrana cellulare, si determina un processo di autofosforilazione dei due specifici residui Tyr localizzati sul lato citoplasmatico delle due subunità beta (regione protein chinasica).

La reazione catalizzata dall’enzima proteina tiroxina chinasi (PTK) è la seguente:

residuo Tyr + ATP –> TyrP + ADP

A seguito di questa attivazione molte proteine chiave intracellulari vengono fosforilate da una serie di reazioni a catena la cui sequenza è la seguente: IRS-1 (substrato recettore insulico-1), PI3-Kinasi (fosfatidilinositolo – 3 Kinasi, classe IA), PIP2 (fosfatidilinositolo difosfato), PIP3 (fosfatidilinositolo trifosfato), PKB (proteina kinasi B), PKC (proteina Kinasi C).

La fosforilazione di queste proteine è essenziale per la determinazione cellulare dell’insulina sui seguenti eventi biologici:

a) stimolazione della trascrizione o repressione dei geni del DNA a livello del nucleo;

b) stimolazione della sintesi proteica;

c) stimolazione intracellulare dei processi anabolici e inibizione di quelli catabolici (carboidrati, lipidi, proteine);

d) traslocazione delle unità di trasporto del glucosio dal citoplasma alla membrana cellulare e tubuli a T.

Questo recettori possono essere geneticamente difettosi e determinare quindi insulino resistenza. Fattori genetici e acquisiti possono profondamente influenzare la sensibilità dei recettori insulinici. Difetti genetici dei recettori insulinici sono piuttosto rari, ma rappresentano la forma più severa di insulino resistenza.

Fattori postrecettoriali (intracellulari)
(Lodish 2000, Gomperts 2002)
Recettori e trasduzione del segnale: brevi caratteristiche generali

L’informazione nei sistemi biologici viene trasferita mediante segnali e recettori aventi affinità chimico o fisica. I segnali sono solitamente di tipo molecolare (es. insulina, ecc), ma possono anche essere di tipo non molecolare (es. luce, suoni, onde elettromagnetiche, variazione di potenziale elettrico di membrana). I recettori sono complessi proteici o glicoproteici la cui funzione primaria consiste nel raccogliere e trasmettere l’informazione biologica proveniente da altre molecole chimiche. Essi possono essere localizzati sulle membrane delle cellule bersaglio che si legano con molecole di natura proteica non in grado di attraversare la membrana cellulare (es. insulina), e recettori intracellulari che si legano invece a molecole di natura lipidica in grado di attraversare la membrana plasmatica grazie alle loro caratteristiche di idrofobicità (es. ormoni steroidei, ecc..). I recettori di membrana per funzionare necessitano di un trasduttore, detto anche secondo messaggero, che trasferisce il segnale dalle membrana ai sistemi che devono essere attivati dentro la cellula (effettori biologici). Essi sono molto importanti in quanto possono intervenire nella modulazione dell’informazione sia in senso qualitativo che quantitativo. I trasduttori del segnale consentono di amplificare enormemente l’azione di ogni singolo recettore attivato, ma sono possibili anche effetti di retroazione inibitoria, che nel caso specifico dei recettori insulinici può portare allo sviluppo di insulino resistenza. In condizioni fisiologiche normali, a seguito del legame insulina recettore si attiva una proteina chinasi che, tramite la fosforilazione di proteine, innesca l’attivazione di una serie di funzioni biologiche ma nello stesso tempo, però, il recettore stesso viene fosforilato in una preciso sito aminoacidico con conseguente disattivazione della sua funzione (meccanismo di feed-back negativo). Questo significa perdita di affinità di legame fra recettore e l’insulina, cioè sviluppo di insulino resistenza che è la causa principale preliminare essenziale che precede diverse importanti patologie metaboliche fra cui il diabete tipo 2.

GLUT4 (Booth 2002, Zierath 2002)

L’insulina è un’importante molecola segnale che aumenta il trasporto di glucosio nel tessuto adiposo e nel muscolo mediante la stimolazione della traslocazione delle proteine GLUT4 dai siti intracellulari alla membrana plasmatica. Le GLUT4 si trovano in vescicole che continuamente si trasferiscono dai depositi intracellulari alla membrana plasmatica. L’insulina aumenta il trasporto transmembrana del glucosio aumentando l’esocitosi delle vescicole contenenti GLUT4. Recenti evidenze scientifiche dimostrano che queste vescicole si muovono fino ad agganciarsi e a fondersi con la membrana plasmatica. Anche questi processi si effettuano comunque sempre sotto il controllo insulinico. La quantità di GLUT4 proteine è il fattore primario che determina il massimo tasso di glucosio che può essere trasportato all’interno della cellula muscolare. Perciò è importante capire come l’esercizio fisico regola l’espressione del GLUT4. La capacità di trasporto del glucosio attraverso la membrana cellulare dipende, nel muscolo scheletrico, principalmente dall’insulina e dalla contrazione muscolare in cui il contenuto di glicogeno ha un importante ruolo regolativo. La cascata tradizionale di reazioni riguardano la PI-3 kinasi e la PKB quali enzimi chiave, ma altri trasduttori alternativi comprendono la proteina kinasi C. Le GLUT4 costituiscono nel tessuto adiposo un elemento chiave nel trasporto dello zucchero. Normalmente, l’insulina stimola i muscoli e le cellule adipose a traslocare le GLUT4 verso la membrana cellulare, per far iniziare il trasporto di glucosio attraverso il doppio strato di fosfolipidi ad esso impermeabile verso l’interno della cellula dove viene trasformato in carboidrati complessi e grasso oppure ossidato. La riduzione delle GLUT4 nelle cellule adipose va considerata come un importante fattore di rischio nello sviluppo della resistenza insulinica che costituisce il primo passo verso la patologia diabetica. Le GLUT4 nel muscolo scheletrico sono il maggior trasportatore di glucosio. In contrasto con gli altri trasportatori di glucosio che costitutivamente risiedono nella membrana cellulare, le GLUT4 fanno da shuttle fra la il citoplasma e la membrana cellulare. In condizioni basali la distribuzione delle vescicole delle GLUT4 è prevalentemente intracellulare. A seguito della stimolazione mediata dall’insulina, oppure dalla contrazione muscolare, si verifica una ridistribuzione delle GLUT4 per cui nel giro di qualche minuto una larga frazione di esse si trova sulla superficie della membrana cellulare o sui tuboli a T. Le GLUT4 sono costituite da un polipeptide composto da 509 aminoacidi che è codificato da un gene localizzato nel cromosoma 17. Queste proteine trasportatrici sono presenti ad elevati livelli nei tessuti insulino dipendenti quali il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo. L’esercizio fisico determina un incremento di captazione di glucosio da parte del muscolo scheletrico. La contrazione muscolare induce un aumento della sensibilità e dell’azione insulinica. Il meccanismo dell’aumentata captazione di glucosio durante e dopo esercizio non è attualmente ben conosciuto. I fattori che potrebbero essere coinvolti comprendono il MAF (muscolar activity factors), un aumento del flusso sanguigno nei muscoli sottoposti ad esercizio, un aumento del legame dell’insulina e cambiamenti nella concentrazione citoplasmatica del calcio. Poiché nel muscolo il trasporto del glucosio è il fattore che più limita l’ossidazione del glucosio stesso, la regolazione di questo sistema gioca un ruolo fondamentale nel corso dell’esercizio. Recentemente, molti studi hanno dimostrato che una singola seduta di esercizio fisico può aumentare il numero e l’attività intrinseca delle proteine trasportatrici di glucosio presenti nella membrana plasmatica delle cellule muscolari (effetti acuti dell’esercizio). L’allenamento determina come effetto un aumento dell’abilità dell’insulina di stimolare la captazione di glucosio nei tessuti insulino dipendenti (muscolo, tessuto adiposo). Nel muscolo scheletrico, le proteine GLUT4 costituiscono il sistema di trasporto del glucosio più rilevante. Le proteina GLUT4 sono traslocate da una localizzazione intracellulare, quale ad esempio i microsomi a bassa intensità, alla membrana plasmatica con la quale si fonde per rilasciare le proteine coinvolte nel trasporto del glucosio dall’esterno verso il citoplasma. Le GLUT4 sono distribuite nel muscolo scheletrico, nel tessuto adiposo bruno e bianco e nel muscolo cardiaco. Nel muscolo le GLUT 4 potenziano il trasporto transmenbrana del glucosio sia per effetto mediato dall’insulina (legame recettore insulina, IRS-1, PI 3-Kinasi, stimolazione traslocazione GLUT4) sia per effetto derivante dalla contrazione muscolare. IRS-1 e PI 3-Kinasi sono componenti essenziali per la stimolazione dell’insulina delle GLUT4 nel muscolo scheletrico e non costituiscono parte del meccanismo tramite il quale l’esercizio fisico, cioè la contrazione muscolare, stimola la traslocazione delle GLUT4. La traslocazione è comunque solo la prima tappa del movimento delle GLUT4 dal pool vescicolare del citoplasma. Le altre tappe comprendono l’aggangio (docking) e la fusione delle GLUT4 con la membrana plasmatica, cui segue l’internalizzazione e l’endocitosi da parte del pool vescicolare. Difetti del movimento delle GLUT4 possono contribuire a peggiorare lo stato di insulino resistenza nel muscolo a causa di una parziale insufficienza delle GLUT4 di traslocare, di agganciarsi e di fondersi con la membrana plasmatica.

Trasporto e metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico (Zierath 2002)

Il trasporto del glucosio, nel muscolo scheletrico, può essere attivato da 2 vie indipendenti: la via mediata dal legame insulina recettore e la via mediata dalla contrazione muscolare (quest’ultima è costituita da due sistemi di attivazione AMPKinasi e MAP kinasi). Il muscolo scheletrico è quantitativamente il più importante tessuto coinvolto nel mantenimento dell’omeostasi glucidica; capta circa l’80% del glucosio disponibile in seguito all’ingestione dello stesso. Sono state fornite prove dirette che dimostrano che deficit nel trasporto del glucosio e nella traslocazione delle proteine GLUT4 sono responsabili diretti dell’insulino resistenza. Le GLUT4 sono essenziali non solo per lo stimolo dell’insulina, ma anche per l’ipossia/esercizio (contrazione). Il livello di attività fisica è legato al miglioramento dell’omeostasi glicemica. L’allenamento ha effetti multipli sul metabolismo del glucosio e sull’espressione genica a livello muscolare. L’espressione di tutte le proteine di trasporto è maggiore nelle fibre ossidative rispetto a quelle glicolitiche . Questo potrebbe significare che i muscoli con prevalente metabolismo aerobico sono più colpiti dalle malattie metaboliche quali ad esempio il diabete.

Trasduzione intracellulare del segnale insulinico (Pessin 2000, Lodish 2000, Zierath 2002)

L’insulino resistenza si può determinare a causa di difetti nei meccanismi intracellulari di trasduzione del segnale dalla membrana cellulare verso l’interno della cellula. Al riguardo è essenziale illustrare i meccanismi che operano internamente alla cellula tenuto conto che il muscolo, in caso di insulino insensibilità, è il tessuto che più di ogni altro contribuisce allo sviluppo dell’insulino resistenza di carattere generale.

Sistema insulino dipendente

A livello muscolare, così come negli altri tessuti insulino dipendenti, il glucosio per attraversare la rispettiva membrana cellulare bisogna che l’insulina si leghi al suo rispettivo recettore. Questo è costituito da una glicoproteina in cui sono presenti due subunità alfa rivolte verso la parte esterna della cellula e due subunità beta rivolte invece verso il citosol, cioè la parte interna, tenute insieme da due ponti disulfurici. L’insulina, legandosi alla parte esterna del recettore, cioè alle componenti alfa, determina una variazione conformazionale del recettore a livello delle due subunità beta con conseguente attivazione del recettore tirosina-chinasi localizzato nelle due subunità beta (auotofosforilazione). In questi ultimi anni sono stati fatti studi importanti per identificare gli eventi postrecettoriali in grado di attivare le azioni biologiche finali che caratterizzano il metabolismo intracellulare dell’insulina. Tali reazioni riguardano l’attivazione dei substrati insulinici 1 e 2 (IRS 1 e 2 ), della fosfatidilinositolo 3 Kinasi (PI 3-Kinasi), della proteina kinasi B (PKB) e C (PKC), del fosfatidilinositolo difosfato (PI2) e fosfatidilinositolo trifosfato (PI3).

Substrati recettore insulina (IRS1 e 2)

La trasduzione intracellulare del segnale insulinico consiste in una serie di eventi complessi che coinvolgono effettori di natura proteica che regolano le diverse risposte cellulari. La via della trasduzione del segnale insulinico non è necessariamente lineare in quanto c’è un alto grado di reciproca influenza fra i trasduttori di segnali. L’IRS1 e 2 che si attivano immediatamente dopo il legame insulina recettore si fanno da tramite fra lo stesso recettore e gli eventi molecolari a cascata finalizzati ad attivare le varie risposte metaboliche (azioni intracellulari dell’insulina). Le molecole costitutive degli IRS contengono numerosi siti tirosinici che diventano fosforilati dopo stimolazione insulinica giocando un ruolo selettivo nella regolazione della risposta metabolica nei tessuti insulino dipendenti (fegato, muscolo, tessuto adiposo).

Fosfatidilinositolo 3 kinasi (PI 3-kinasi) ed effettori

Il fosfatidilinositolo 3 kinasi (PI3-Kinasi) è uno degli intermedi molecolari più caratterizzati che si lega da una parte agli IRS1 e 2 e dall’altra ad altre molecole coinvolte nella trasduzione intracellulare del segnale insulinico. La PI 3-kinasi associata alla fosforilazione tirosinica degli IRSs dopo stimolazione insulinica catalizza la formazione del fosfatilinositolo trifosfato (PIP3 trifosfato), che serve quale regolatore allosterico del fosfatidilinositolo kinasi dipendente (PI 3-kinasi). Questo enzima ha un ruolo importante nel trasporto del glucosio mediato dalle GLUT4, cioè dal complesso proteico che potenzia il trasporto del glucosio attraverso la membrana cellulare (traslocazione delle GLUT4). I meccanismi di questo processo non sono ancora ben chiari. Sembra che la PI 3-kinasi attivi un’altra proteina kinasi B o C che determinerebbe successivamente la traslocazione delle GLUT4 e conseguentemente una aumentata captazione del glucosio a livello della membrana. L’attività della PI 3-kinasi conseguente al legame recettore insulina nel muscolo scheletrico è peggiorata nei pazienti affetti da diabete tipo 2 e nei soggetti obesi mettendo in evidenza il ruolo determinante dello stato di insulino resistenza nelle due patologie sopra citate. Una persistente sensibilità all’insulina è osservabile nel muscolo anche dopo parecchie ore dalla fine di una singola seduta di allenamento. L’aumentata attività della PI 3-Kinasi da elevata fosforilazione tirosinica nelle ore immediatamente dopo esercizio fisico può parzialmente contribuire al persistente incremento di captazione del glucosio. L’esercizio fisico regolare aumenta l’attività della PI 3-kinasi nel muscolo scheletrico. Poiché la PI 3-kinasi è un importante sistema che interviene nel regolare l’assunzione del glucosio, questo meccanismo può notevolmente contribuire a migliorare le azioni intracellulari dell’insulina nel muscolo scheletrico. L’allenamento determina un aumento generalizzato della captazione del glucosio ematico. Questo effetto è correlato con l’aumentata espressione proteica delle GLUT4 come risposta adattiva nell’espressione e funzione delle molecole chiave attivate in conseguenza del legame recettore insulina. Anche se le conoscenze attuali sulla trasduzione dei segnali che regolano la captazione del glucosio sono limitate, stanno tuttavia per essere messe in evidenza importanti meccanismi che mediano il trasferimento intracellulare di questa molecola.

IRS1 e 2 ed esercizio

L’IRS1 e 2 sono importanti mediatori chimici dei segnali nel muscolo scheletrico. Sono stati messi in evidenza gli effetti dell’allenamento che inducono un aumento di attività degli IRS 1 e 2 osservabili fino a 16 ore dalla fine della seduta di esercizio.

 

 

VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Ginetto Bovo
Dr. in scienze motorie, docente di educazione fisica

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)

FATTORI PRERECETTORIALI, RECETTORIALI (GENETICI) E POSTRECETTORIALI (INTRACELLULARI) NELLO SVILUPPO DELL’ INSULINO RESISTENZA (Zierath 2000)

Lo stato di insulina resistenza si determina da una profonda disregolazione delle azioni metaboliche intracellulari dell’insulina nei tessuti insulino dipendenti (stimolazione della glicogenosintesi, lipogenesi e proteino sintesi, inibizione della lipolisi, glicogenolisi, proteolisi, ecc).

L’insulino resistenza è una condizione tipica nello sviluppo del diabete tipo 2, così come nell’obesità e in altre condizioni patologiche.

In essa possiamo distinguere fattori prerecettoriali, recettoriali (difetti genetici) e postrecettoriali (intracellulari) in grado di determinare lo sviluppo di insulino sensibilità. L’insulino resistenza nell’obesità e nel diabete tipo 2 è caratterizzata da difetti a molti livelli in cui è possibile constatare una diminuita concentrazione dei recettori insulinici e della loro rispettiva attività chinasica, una diminuita concentrazione e fosforilazione degli IRSs, una diminuzione dell’attività della PI 3-Kinasi, una diminuita traslocazione delle proteine GLUT4 coinvolte nel trasporto del glucosio, una diminuita attività degli enzimi intracellulari, ecc. Nei soggetti allenati si osserva una riduzione della secrezione di insulina che è espressione di una maggiore sensibilità dei tessuti all’ormone e quindi, in termini pratici significa minor probabilità di sviluppare uno stato di insulino resistenza.

Fattori prerecettoriali
TNF alfa (Steensberg 2001, Saltiel 2001)

Serve a limitare l’espansione della massa adiposa. E’ prodotto dagli adipociti e dalle cellule infiammatorie e svolge un ruolo importante nell’insorgenza dell’insulino resistenza e dell’aterogenesi. La sua produzione è inibita dall’interleukina 6 (IL-6), che è una citochina prodotta in corso di esercizio dai muscoli coinvolti nella contrazione in quantità correlata all’intensità e alla durata dello sforzo e dal livello endomuscolare di glicogeno. Bassi livelli di glicogeno favoriscono la produzione di IL-6 che ha diversi effetti: a livello del tessuto adiposo favorisce la lipolisi dei trigliceridi e inibisce la produzione di TNF alfa che ha un ruolo patogenetico nell’insorgenza dello stato di insulino resistenza e a livello epatico favorisce la glicogenolisi. La sintesi di TNF alfa è aumentata negli adipociti dei soggetti obesi ed è il responsabile della fosforilazione della serina degli IRS-1, determinando in questo modo una riduzione dell’attività dei recettori tirosina-chinasici e quindi dello stato di insulino resistenza. Nei roditori, reagenti anti TNF alfa migliorano significativamente l’insulino resistenza; nell’uomo alcuni limitati studi hanno invece documentato che questo meccanismo non produce nessun o scarsi effetti sull’insulino resistenza. Il TNF alfa aumenta inoltre la degradazione delle sfingomieline la cui concentrazione risulta correlata positivamente con l’obesità.

Adiponectina (Acrp30) (Berg 2001, Saltiel 2001)

Sono stati identificati un cospicuo numero di fattori coinvolti nel metabolismo energetico che sono espressi esclusivamente o in forma predominante e rilasciati dal tessuto adiposo. L’Acrp30 è uno di questi fattori che risulta coinvolto nel controllo sistemico dell’insulino sensibilità ed è costituito da una proteina di 247 aminoacidi. Recentemente è stato osservato che elevando farmacologicamente i livelli di Acrp30 si determina un transitorio abbassamento dei livelli glicemici, mentre nei soggetti obesi e diabetici di tipo 2 sono stati evidenziati bassi livelli plasmatici di adiponectina indicando in questo modo una correlazione con l’insulino resistenza. Questo effetto viene principalmente ottenuto attraverso una riduzione del rilascio del glucosio da parte del fegato in conseguenza di una migliorata insulino sensibilità. In laboratorio sono stati prodotti modelli che si basano su roditori che esprimono elevati livelli di Acrp30 tre o quattro volte superiori ai livelli normali che risultano caratterizzati da una notevole sensibilità dei recettori insulinici, da un diminuito livello plasmatico degli FFAs, da una ridotta quantità di trigliceridi nei muscoli e nel fegato e da una aumentata espressione dei geni coinvolti nell’ossidazione degli acidi grassi e nella spesa energetica. Questi tipo di studi dimostrano il coinvolgimento diretto e indiretto dell’Acrp30 nel metabolismo dei carboidrati e dei lipidi e quindi sulla sensibilità insulinica. Per quanta riguarda gli effetti dell’esercizio fisico non accompagnato a riduzione di peso non sono state osservate modificazioni significative dei livelli plasmatici di adiponectina in contraddizione con un paio di abstracts presentati a San Francisco (USA) nella Diabetes Conference 2002 in cui invece si mette in evidenza che l’attività fisica determina un incremento di questa proteina.

Obesità (Khan 2000, Booth 2002)

Un soggetto viene considerato obeso quanto il suo peso corporeo supera del 20% rispetto a quello raccomandato per una data altezza. L’obesità consiste in una espansione della massa adiposa oltre i limiti fisiologici causando, molto spesso (80% dei casi), uno stato di insulino resistenza i cui meccanismi non sono ancora ben chiari. La prevalenza di diabete è circa tre volte maggiore nelle persone obese. L’insulino resistenza è la conseguente iperinsulinemia, oltre ad essere causate dall’obesità, possono contribuire esse stesse allo sviluppo eccessivo della massa adiposa. La funzione degli adipociti può essere considerata anche come ghiandola endocrina, con ampi effetti in altri organi incluso il cervello. Il rilascio di una notevole quantità di molecole che includono ormoni quali la leptina, le citochine come il TNF alfa, e i substrati quali gli FFA permettono al tessuto adiposo di avere un ruolo fondamentale nel bilancio energetico dell’organismo e nell’omeostasi glucidica. Le sfingomieline (ceramide) risultano positivamente correlate all’obesità. L’adiponectina (acrp30) è un fattore rilasciato dal tessuto adiposo che ha un’importante funzione nel metabolismo energetico ed è coinvolta nel controllo della sensibilità sistemica dell’insulina. Un aumento farmacologico di questo fattore ha dimostrato un ridotto livello glicemico da diminuito rilascio epatico di glucosio in conseguenza della migliorata sensibilità all’insulina. L’ossidazione degli FFA non solo provvede a fornire energia ai tessuti, ma implica anche una ridotta utilizzazione del glucosio. Questo effetto regolatore degli FFA è conosciuto come ciclo glucosio-acidi grassi. L’obesità può essere parzialmente spiegata come iperfagia e ridotta attività fisica che determinano un bilancio energetico positivo con deposito di energia chimica sotto forma di trigliceridi nell’organismo. Il tessuto adiposo è l’organo più importante per il deposito dei lipidi. Miglioramenti metabolici associati ad una riduzione della massa adiposa includono dei cambiamenti riguardanti il metabolismo dei carboidrati e dei lipidi che possono ridurre il rischio di sviluppare malattie quali il diabete e le patologie cardiovascolari generalmente associate ad una obesità distrettuale localizza a livello dell’addome (obesità viscerale). L’obesità viscerale in particolare interagisce con l’inattività fisica incrementando in questo modo il rischio di malattia coronarica e di diabete tipo 2, che è un altro fattore di rischio indipendente di malattia delle coronarie. Secondo alcuni recenti studi, l’obesità si associa ad un peggioramento del sistema di trasferimento interno del segnale insulinico determinando nell’adipocita una diminuita attività del trasduttore IRS-1, che contribuisce ovviamente allo sviluppo di insulino resistenza. Da sottolineare un paradosso molto importante. Sia l’eccesso che l’assenza di tessuto adiposo causano insulino resistenza mettendo in evidenza la complessità di questa correlazione. Il tessuto adiposo, considerato oggi come un organo endocrino, svolge funzioni complesse (vedi es. secrezione della leptina ed effetti multipli da essa prodotti, ecc.). Conoscenze scientifiche prodotte nell’ultimo decennio hanno evidenziato importanti aspetti biologici degli adipociti che come ghiandola endocrina finiscono per produrre i loro effetti in altri organi, in particolare a livello del sistema nervoso centrale. Il rilascio di una varietà di sostanze quali la leptina, il TNF alfa e substrati quali gli FFAs permettono al tessuto adiposo di svolgere un ruolo importante nell’omeostasi del glucosio e nel bilancio energetico del soggetto. Nella opulenta società moderna, l’obesità ha raggiunto proporzioni epidemiche per cui si rende necessario, ai fini della prevenzione delle patologie ad essa associate, spostare l’equazione relativa all’assunzione ed utilizzazione energetica verso una ridotta scorta lipidica offrendo in questo una grande opportunità di modificare positivamente il decorso della patologia umana. In corso di esercizio fisico, specialmente di bassa o moderata intensità il tessuto adiposo provvede a fornire una parte considerevole di substrati al muscolo scheletrico (30-90%). Durante l’attività fisica di moderata intensità la lipolisi nel tessuto adiposo aumenta di due o tre volte rispetto al valore basale. Inoltre, la percentuale di acidi grassi riesterificati nel tessuto adiposo diminuisce e conseguentemente un’aumentata quantità di acidi grassi vengono forniti ai muscoli in attività. I principali stimolatori della lipolisi in corso di esercizio fisico sono costituiti da un aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico adrenergico e da una diminuzione della concentrazione di insulina. Alcuni studi inoltre dimostrano che la sensibilità del tessuto adiposo alla risposta adrenergica aumenta nel corso di una singola seduta di esercizio fisico. I soggetti allenati, in corso di esercizio, ossidano una maggiore quantità di acidi grassi rispetti ai soggetti sedentari. Gli effetti dell’allenamento sull’attività dell’enzima lipasi ormono sensibile (HSL), che costituisce il fattore limitante nella lipolisi, ha effetti contrastanti in quanto sono stati evidenziati aspetti che determinano un aumento e una diminuzione di attività. Studi scientifici documentano che la lipolisi nel tessuto adiposo da soppressione insulinica è più sensibile nei soggetti allenati rispetto ai sedentari. Gli FFAs sono prodotti durante la lipolisi dei trigliceridi in molti tessuti e fino a tempi recenti non è stato possibile valutare direttamente in corso di esercizio fisico il ruolo relativo dei vari depositi. La quantità delle scorte del tessuto adiposo intraddominale si correla direttamente con l’insulino resistenza ed è considerata un fattore importante nello sviluppo del diabete tipo 2, dell’iperlipemia e dell’ipertensione arteriosa. L’ossidazione generale degli acidi grassi aumenta in risposta all’esercizio e raggiunge il suo picco massimo a circa il 60% della VO2 max. Inoltre, l’ossidazione lipidica aumenta con la durata dell’esercizio caratterizzato da moderata intensità. L’esercizio incrementa lipolisi sia nel tessuto adiposo sia nei muscoli coinvolti nella contrazione, mentre gli FFA plasmatici derivanti dai trigliceridi contribuiscono nel periodo postprandiale solo molto parzialmente al metabolismo dell’esercizio.

Leptina (Zaccaria 2002; Gabriely 2002, Nindl 2002, Saltiel 2001)

La concentrazione serica di leptina è ridotta in presenza di un bilancio energetico negativo. La leptina è una proteina scoperta nel 1994 che è espressa e prodotta dal tessuto adiposo ed ha la funzione di controllare l’assunzione degli alimenti mediante l’attivazione di segnali di sazietà a livello ipotalamico (neuropeptide Y), che è il centro di controllo dell’appetito nel cervello. In condizione di equilibrio energetico la leptina è considerata un buon indice della quantità di grasso depositata nell’organismo, mentre in condizioni di sbilancio la leptina non può più essere considerata un marker fedele della quantità di energia chimica di tipo lipidico presente in un determinato soggetto. Infatti, nel digiuno prolungato caratterizzato da un bilancio energetico negativo la concentrazione di leptina è diminuita, mentre nella sovralimentazione in cui si determina un bilancio energetico positivo il livello di leptina è aumentato. Solo l’esercizio fisico estremo che determina un elevato dispendio energetico è in grado di ridurre la concentrazione di leptina. I risultati contradditori sulle risposte della leptina ai vari tipi di esercizi potrebbero essere spiegati sulla base delle differenti procedure sperimentali (es. protocolli di esercizi, dieta prima e durante esercizio fisico, ritmi circadiani). Il digiuno prolungato provoca una caduta della leptina a partire dalla 12a ora. La somministrazione cronica di leptina fa diminuire l’assunzione di cibo determinando conseguentemente una riduzione della massa adiposa in particolare a livello viscerale, con un parallelo significativo miglioramento dell’azione dell’insulina a livello epatico e periferico. La leptina dal p.v. molecolare è un peptide di 16-K prodotto dagli adipociti che può modulare molte alterazioni metaboliche associate ai processi di invecchiamento (obesità, cambiamento della distribuzione adiposa, insulino resistenza). La somministrazione cronica di leptina fa diluire l’assunzione cibo e induce una riduzione della massa adiposa a livello viscerale con un parallelo significativo incremento dell’azione epatica e periferica dell’insulina. Le azioni principali della leptina riguardano il controllo dell’assunzione alimentare, la massa adiposa e la sua espressione genica a livello degli adipociti. La leptina comunica lo stato delle scorte energetiche dell’organismo al SNC. L’invecchiamento e l’obesità determinano uno stato di leptino resistenza con conseguente aumento del livello plasmatico della leptina stessa. I soggetti obesi presentano alte concentrazioni di leptina nel tentativo di ridurre l’introduzione calorica alimentare e di aumentare la termogenesi, entrambi meccanismi fisiologici di rimozione dell’energia chimica. La leptina funziona non solo come segnale di sazietà e di soppressione dell’appetito, ma anche tramite i suoi recettori presenti nelle cellule e nei vasi di recente formazione interviene nel modulare l’attività immunologia ed emodinamica. Con l’invecchiamento aumentano i livelli plasmatici di leptina che determinano uno stato di resistenza all’azione della stessa leptina e possono spiegare perché le persone anziane presentano un’obesità di tipo addominale accompagnata spesso da insulino resistenza.

Amilina (Kraemer 2002)

L’amilina è un ormone polipeptidico di 37 aminoacidi cosecreto con l’insulina dalle cellule beta pancreatiche delle Isole del Langherhans in risposta agli stimoli alimentari. Esercita la sua azione sul controllo glicemico post prandiale essenzialmente traimite i seguenti meccanismi:

a) soppressione della secrezione di glucagone che è uno dei più potenti stimoli della glicogenesi a livello epatico;

b) modulazione della disponibilità dei nutrienti nel transito stomaco-duodeno;

c) riduzione di assunzione di cibo mediante stimolazione dei rispettivi recettori ad alta densità localizzati nel SNC la cui stimolazione è in grado di anticipare il senso di sazietà e quindi di limitare l’assunzione di cibo e la relativa introduzione calorica. Nei pazienti diabetici tipo 2 il deficit parziale di amilina, che tende ad accumularsi al di fuori della cellula beta assumendo le caratteristiche tintoriali dell’amilodie, contribuisce a determinare uno sbilanciamento glicemico dovuto ad un alterato rapporto fra entrata ed uscita di glucosio. Protocolli di esercizio fisico intermittente di moderata e media intensità hanno dimostrato degli importanti aumenti plasmatici di amilina.

Bilancio energetico (Khan 2000)

Ci sono evidenze scientifiche che incriminano il bilancio energetico positivo derivante da un eccesso di assunzione calorica alimentare oppure da un ridotto dispendio energetico da inattività quale fattore centrale nello sviluppo dell’insulino resistenza e nella patogenesi di molte altre malattie metaboliche. Con l’invecchiamento si verifica una graduale riduzione del metabolismo basale, non accompagnato molto spesso da una proporzionale riduzione dell’assunzione dei nutrienti alimentari. Il tessuto adiposo, considerato oggi come un organo endocrino, riveste un ruolo fondamentale in grado di dire che cosa fare ad altri organi che si occupano di accumulare energia. L’effetto dell’allenamento nel mantenimento di un equilibrato bilancio energetico è un importante aspetto nella prevenzione del diabete tipo 2, così come di altri tipi di patologie.

SFFA (Shulman 2000, Saltiel 2001, Sihna 2002)

Gli FFA sono mobilizzati dal tessuto adiposo e vengono ossidati dal muscolo e dagli altri tessuti dell’organismo.Viaggiano nel plasma trasportati dall’albumina la cui concentrazione esercita un ruolo parziale nel controllo dell’ossidazione lipidica nel muscolo. Non solo, l’ossidazione degli FFA esercita entro determinate condizioni anche un controllo sul tasso di utilizzazione ed ossidazione del glucosio. Il ciclo glucosio-acidi grassi ha quindi un ruolo nell’insulino resistenza e nel disturbo metabolico ad esso associato. L’ossidazione degli FFA può inibire l’utilizzazione del glucosio e del glicogeno. L’allenamento determina la capacità di indurre una aumentata rimozione dei TG dal circolo. Una notevole percentuale dei grassi ossidati durante l’esercizio è di provenienza intramuscolare. Molti dei rimanenti grassi ossidati provengono dagli FFA originati dal tessuto adiposo. Ci sono molte evidenze scientifiche nelle quali si dimostra che gli FFA vengono captati dal muscolo tramite la mediazione di uno specifico sistema di trasporto. A causa della scarsa solubilità, il 99% degli FFA si trova nel plasma legato all’albumina che manifesta un’alta affinità per questo tipo di lipide. In condizioni di iperlipemia un’alta percentuale del flusso totale di FFA avviene tramite la via della diffusione passiva. La sostituzione alimentare degli acidi grassi saturi con gli insaturi determina un minore accumulo di tessuto adiposo a livello addominale e conseguentemente migliora l’insulina sensibilità. Quando gli acidi grassi nei muscoli e nel fegato non sono sufficientemente utilizzati, il loro accumulo non solo impedisce all’organismo di consumare calorie ma può portare all’insulino resistenza, che aumenta il rischio di sviluppare diabete. Elevati livelli di FFA sono caratteristiche di obesità, insulino resistenza e diabete tipo 2. L’insulino resistenza è uno dei maggiori fattori nella patogenesi del diabete tipo 2 e recenti studi hanno dimostrato una forte correlazione fra l’aumento della concentrazione plasmatica degli acidi grassi e molti stati di insulino resistenza, fra cui il diabete tipo 2 e l’obesità. E’ stata osservato, anche a digiuno, una correlazione inversa fra concentrazione degli acidi grassi e insulino sensibilità, supportanto l’ipotesi che un alterato metabolismo lipidico può contribuire a determinare un ulteriore stato di insulino resistenza nei pazienti diabetici. Inoltre, alcuni recenti studi effettuati tramite biopsia muscolare o tramite NMR hanno dimostrato una forte correlazione fra accumulo intracitoplasmatico di trigliceridi nella cellula muscolare e insulino resistenza. Sembra che il meccanismo tramite il quale gli FFA inducono insulino resistenza sia costituito da una maggiore proporzione di acidi grassi saturi dei fosfolipidi di membrana e dalla quantità e saturazione degli acidi grassi intramiocellulari. Infatti, gli acidi grassi saturi, quali l’acido palmitico, specificatamente inibiscono l’attivazione della PKB e conseguentemente anche la captazione cellulare del glucosio mediata dall’insulina e la capacità di sintesi del glicogeno. L’attività fisica determina l’attivazione del catabolismo generale inducendo quindi un incremento della lipolisi nono solo nel tessuto adiposo ma anche a livello muscolare. Per un certo periodo di tempo si è pensato che il principale meccanismo coinvolto nella lipolisi intramuscoalre fosse determinato dalla lipoproteina lipasi intracellulare. Comunque, questo enzima è sintetizzato come una proteina secretoria e non ha un appropriato ottimo pH. Queste caratteristiche non sono applicabili alla lipasi ormono sensibile del tessuto adiposo, che recentemente è stata trovata anche nel muscolo. La lipasi ormono sensibile nel muscolo può essere simultaneamente fosforilata e attivata dalla proteina kinasi cAMP dipendente. La degradazione dei trigliceridi e del glicogeno nel muscolo può essere regolata da enzimi, rispettivamente lipasi ormono sensibile e glicogeno fosforilasi, che sono attivati in parallelo e sotto il duplice controllo del calcio e degli ormoni. Ci sono infatti evidenze scientifiche che dimostrano l’attivazione simultanea, nel muscolo, della lipoproteina lipasi (LPL) e della lipasi ormono sensibile. La cellula adiposa è importante nella regolazione metabolica generale quanto rilasciando gli FFAs riduce la captazione del glucosio da parte del muscolo, la secrezione insulinica delle cellule beta e aumenta il rilascio ematico del glucosio da parte del fegato. La cellula adiposa secerne anche le “adipokine” quali ad esempio la leptina, l’adiponectina e il TNF, che regolano l’assunzione di cibo, la spesa energetica e l’insulino sensibilità.

VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Ginetto Bovo
Dr. in scienze motorie, docente di educazione fisica

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)

In questa tesi di laurea, il dr. Ginetto Bovo tratta in maniera approfondita tutti gli aspetti riguardanti il diabete di tipo 2 ed il ruolo che l’esercizio fisico svolge nella prevenzione ed il miglioramento di tale patologia.

In seguito verranno discussi gli aspetti molecolari ed il meccanismo d’azione di questa complessa patologia che affligge ogni anno milioni di persone e che dalla stime statistiche è in costante aumento.

Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari

Indice

Introduzione

Aspetti generali

1. Insulina ed esercizio

2. Insulino resistenza

Fattori prerecettoriali, recettoriali (genetici) e postrecettoriali nello sviluppo dell’insulino resistenza

1. fattori prerecettoriali: TNF alfa, Adiponectina, Obesità, Leptina, Amilina, Bilancio Energetico, sFFA;

2. fattori recettoriali (genetici);

3. fattori postrecettoriali:

1. Recettori e trasduzione del segnale: brevi caratteristiche generali;

2. GLUT4;

3. Trasporto e metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico;

4. Trasduzione intracellulare del segnale insulinico;

5. Effetti dell’esercizio fisico nella trasduzione intracellulare dei segnali insulinici;

6. Sistemi non insulino dipendenti in grado di potenziare il trasporto e il metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico (AMP Kinasi e MAP Kinasi) ed effetti dell’esercizio fisico.

INTRODUZIONE

(Zimmet 2001, Booth 2002)

Nel libro “Oxford Textbook of Public Health” – Ed. 2002 – è scritto testualmente che l’inattività fisica (sedentarietà) è uno dei maggiori fattori di diffusione della malattia diabetica tipo 2 e dell’obesità. Attualmente il diabete tipo 2 colpisce dal 3 al 5% della popolazione sia nei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo. E’ noto che, in genere, tra il manifestarsi della malattia e la sua diagnosi passano almeno 5  10 anni. Per questo motivo si pensa che allo stato attuale una stessa percentuale di persone sarebbe affetta da malattia senza esserne a conoscenza. Inoltre, l’OMS informa che nei prossimi 10 anni l’incidenza del diabete tipo 2 è destinata a raddoppiare a causa dell’aumento percentuale dei soggetti in sovrappeso anche nei paesi in via di sviluppo. Secondo recenti risultati ottenuti dal Finnish Diabetes Prevention Study è stato dimostrato che il rischio di patologia diabetica può essere ridotto di ben il 58% mediante programmi mirati che includano anche l’esercizio fisico. La malattia è conseguente a fattori genetici con più o meno spiccate componenti ambientali ed è spesso caratterizzata da una concentrazione plasmatica media di insulina essenzialmente normale o anche elevata. La malattia si manifesta nella popolazione dopo i 30 anni. Due sono, fino ad oggi, i principali fattori chiave responsabili conosciuti: l’insulino resistenza e l’obesità. Su queste due principali cause di diabete tipo 2 l’esercizio fisico produce degli effetti positivi importanti (riduzione della massa adiposa, aumentata sensibilità all’insulina, ecc.). Nonostante il contributo in senso patologico del fattore genetico, il diabete tipo 2 può essere ampiamente prevenuto. Il genoma umano è stato evolutivamente programmato per l’esercizio fisico. L’inattività fisica, caratteristica dello stile di vita moderno, è ampiamente responsabile della diffusione di questo tipo di malattia. Il mancato movimento fisiologico interagisce direttamente con il genoma determinando l’attivazione di fattori patologici iniziali che conducono progressivamente verso la malattia conclamata. E’ stimato che entro l’anno 2020 ci saranno nel mondo approssimativamente circa 250 milioni di persone affette da diabete tipo 2. L’insulina è un ormone fondamentale per regolare la quantità di zuccheri nel sangue dopo i pasti e a digiuno. Le cellule dei pazienti diabetici sono incapaci di assorbire il glucosio, che rimane nel sangue raggiungendo livelli pericolosi per la salute in quanto può contribuire a glicolisare irreversibilmente alcune importanti proteine. Il diabete determina l’incapacità dell’organismo di ossidare il glucosio. Conseguentemente sia l’insulina che il glucosio si accumulano nel sangue. I valori glicemici normali o patologici a digiuno sono i seguenti:

    • 70÷115 mg/dl nei soggetti normali;
    • 115÷140 mg/dl nei soggetti con ridotta tolleranza agli idrati di carbonio;
    • 140 mg/dl nei pazienti diabetici.

Secondo un articolo apparso nella rivista “Nature” del 13 dicembre 2001 i dati relativi alla diffusione nel mondo della malattia diabetica e le relative previsioni sono i seguenti:

– anno 2000: 151 milioni (n. di persone con diabete)

– anno 2010: 221 milioni (n. di persone con diabete)

incremento 46%.

ASPETTI GENERALI

Insulina ed esercizio fisico (Marliss 2002, Zierath 2000 Shulman 2002)

L’insulina determina il metabolismo generale e l’omeostasi energetica mediante l’interazione centrale e periferica con i recettori insulinici la cui attivazione risulta coinvolta nella regolazione della sensibilità. Generalmente la concentrazione dell’insulina plasmatica diminuisce in corso di esercizio fisico sia per effetto di una aumenta eliminazione epatica sia a causa di una ridotta secrezione mediata dalla stimolazione dei recettori alfa adrenergici cui si lega l’andrenalina a livello delle cellule beta dell’insula pancreatica. In vitro è stato dimostrato che la captazione del glucosio durante la contrazione avviene mediante un meccanismo insulino indipendente e che l’insulina e la contrazione muscolare hanno effetti additivi sul trasporto del glucosio. Bassi livelli di glicogeno limitano la prestazione sportiva per cui diventa straordinariamente importante la resintesi di questo carboidrato dopo l’esercizio fisico. Se nel periodo immediatamente seguente la seduta di attività fisica non vengono introdotti i carboidrati la ricostituzione delle scorte di glicogeno è non solo rallentata ma anche incompleta. I possibili meccanismi coinvolti nella migliorata sensibilità dei recettori insulinici dopo esercizio fisico potrebbero essere i seguenti. In corso di attità fisica si determina, per effetto degli ormoni catabolici (glucagone, catecolamine, cortisolo, GH), un aumento dell’attività glicogenolitica ed una concomitante riduzione dell’attività glicogenosintetica. Conseguentemente dopo esercizio fisico, il basso livello di glicogeno favorisce in ultima analisi il miglioramento della sensibilità dei recettori insulinici in quanto si determina un aumento della captazione del glucosio, necessario per la sintesi del glicogeno, e un aumento dell’attività dell’enzima glicogenosintetasi (GS) nella sua forma attiva defosforilata. A riposo, gli elevati livelli di glicogeno esercitano un’azione inibitoria sulla traslocazione delle proteine trasportatrici del glucosio (GLUT4) e sulla glicogenosintetasi sia direttamente che indirettamente dalle molecole trasduttrici del segnale insulinico. Dopo esercizio si verifica esattamente la situazione opposta in cui bassi livelli di glicogeno stimolano la traslocazione delle GLUT4, la captazione del glucosio, la trasformazione dell’UDP-glucosio in glicogeno. Quest’ultima situazione si accompagna transitoriamente ad una inevitabile aumentata sensibilità dei recettori insulinici. L’enzima glicogenosintetasi (GS) catalizza la reazione dell’UDP-glucosio in glicogeno nel muscolo scheletrico. In relazione alla tappa riguardante il trasporto di glucosio, l’attività dell’enzima GS costituisce il fattore limitante nella conversione del glucosio in glicogeno. La GS è regolata sia da fattori allosterici (principalmente glucosio 6-fosfato) sia da modificazioni covalenti mediante fosforilazione e defosforilazione reversibili che determinano rispettivamente l’inattivazione o l’attivazione della GS. L’attivazione dell’enzima GS avviene attraverso l’inattivazione della kinasi che agisce sulla GS stessa, ma anche mediante l’attivazione delle GS fosfatasi che risulta principalmente coinvolte nelle proteine fosfatasi I (PPI).

L’insulina e l’esercizio fisico sono due importanti regolatori fisiologici di attività della GS, nonostante i sottostanti meccanismi non siano stati completamente compresi. La stimolazione insulinica dell’enzima GS molto probabilmente coinvolge la deattivazione della GSK3 e l’attivazione del PPI. Si è pensato per qualche tempo che il glicogeno muscolare fosse un potente inibitore della GS, ma è stato evidenziato anche che alti livelli di glicogeno possono ridurre la potenziale attività dell’insulina di attivazione della GS. Molto recentemente, lo sviluppo di anticorpi specifici in grado di riconoscere la fosforilazione dei siti specifici della GS hanno aggiunto importanti informazioni riguardanti l’attività di questo enzima sia nel diabete tipo 2 che negli effetti attivati dall’esercizio fisico. L’insulina non stimola la captazione del glucosio nel fegato, ma inibisce la glicogenolisi e la gluconeogenesi, e stimola la glicogenosintesi regolando in questo modo il livello di glicemia a digiuno. I tessuti cosiddetti “insulino indipendenti” quali il cervello e le cellule beta pancreatiche, possono essere importanti nell’omeostasi del glucosio.

Insulino resistenza (Shulman 2000, Chakravarthy 2002, Kahn 2000)

L’insulino resistenza consiste in una ridotta risposta dei tessuti periferici (adiposo, epatico, muscolare) all’azione dell’insulina che si lega con una minore affinità al suo specifico recettore. Il muscolo scheletrico è stato indicato come il sito più importante di resistenza all’insulina nel diabete tipo 2. I livelli di GLUT4 aumentano in seguito all’allenamento atletico sia nei soggetti normali che nei pazienti NIDDM che vanno incontro ad un aumento delle sensibilità del muscolo all’insulina. L’insulino resistenza è uno dei fattori chiave responsabile dell’iperglicemia ed è la conseguenza di numerose anormalità metaboliche associate alle malattie cardiovascolari (sindrome da insulino resistenza anche in assenza di diabete conclamato). I meccanismi coinvolti nell’insulino resistenza sono multifattoriali e solo parzialmente compresi. Fra questi risulta particolarmente importante l’aumentata disponibilità degli acidi grassi (sFFA) per i danni da questi provocati a livello del sistema muscolare. Il ruolo degli sFFA nel diabete tipo 2 è particolarmente evidente nei soggetti obesi che hanno diverse anormalità del metabolismo lipidico. L’esercizio fisico tramite l’aumentata captazione del glucosio ematico può contribuire nei soggetti con insulino resistenza a migliorare l’omeostasi glicemica. L’insulino resistenza è un aspetto fondamentale nell’eziologia del diabete tipo 2 ed è anche legata, tramite meccanismi diversi all’ipertensione, all’iperlipemia, all’aterosclerosi, alla policisti dell’ovaio. L’insulino resistenza nell’obesità è manifestata da un diminuito trasporto e metabolismo del glucosio negli adipociti o nel muscolo e da una peggiorata soppressione della produzione epatica di glucosio. Anche se le cause primarie del diabete tipo 2 sono tuttora sconosciute, l’insulino resistenza è comunque uno dei principali fattori nello sviluppo di questa malattia. L’insulino resistenza non è più la causa ma è l’effetto (es. di un deficit della sintesi del glicogeno a livello muscolare) e consiste essenzialmente in un difetto nella trasduzione del segnale in un punto della catena che va dal recettore fino alla parte terminale della sequenza di reazioni che determina i vari effetti metabolici. La combinazione di parecchi effetti associati risultano in un debole segnale di trasduzione, insufficiente a generare una risposta totale di assunzione di glucosio. Il sistema muscolare è il principale tessuto responsabile dell’insulino resistenza . Il muscolo scheletrico è stato indicato come il sito più importante di resistenza all’insulina, (fibre rosse o aerobiche in particolare) nel diabete tipo 2. Fra i fattori che contribuiscono all’insulino resistenza vi è anche il cambiamento energetico inteso come rapporto fra ATP ed il prodotto ADP libero e fosfato inorganico: APT/ADP libero + Pi libero. Recenti dati ottenuti da vari gruppi di pazienti hanno evidenziato un nuovo meccanismo di insulino resistenza: un diminuito effetto dell’insulina nello stimolo del flusso ematico. Sono state evidenziate alcune ricerche in cui il meccanismo opposto può elevare l’insulino sensibilità negli individui allenati aerobicamente. Alcuni ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di recettori insulinici nell’endotelio vascolare dei muscoli scheletrici. Questo può significare che la maggior densità dei capillari nei muscoli allenati può migliorare l’azione insulinica nei soggetti attivi che, ovviamente, hanno una frazione significativa di fibre lente (ossidative) nei muscoli sottoposti ad esercizio. Alcuni studi hanno dimostrato che questo profilo si accompagna a uno stato di migliore insulino sensibilità.

 

VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Riabilitazione: come prima, più di prima

Che cosa succede ad un muscolo sottoposto ad un lungo periodo riabilitativo successivo ad un evento lesivo ?

E più specificatamente cosa accade al quadricipite femorale di un calciatore in conseguenza alla fase fisioterapica che segue un intervento riscostruttivo di legamento crociato anteriore o dopo meniscectomia?

Possiamo rispondere a questa domanda, invero credo molto importante per le conseguenze metodologiche nell’ambito dell’allenamento, grazie a due ricerche che abbiamo recentemente condotto appunto in quest’ambito (Bisciotti e coll., 2001, Bisciotti e coll., 2001).

Occorre innanzi tutto fare una premessa molto importante: i piani di lavoro fisioterapici, per quanto indispensabili al fine di ristabilire la piena efficienza muscolare, costituiscono, per il muscolo, un vero e proprio “bombardamento di impulsi a bassa frequenza” decisamente molto indirizzato al lavoro delle fibre lente (fibre di tipo I) ed altrettanto decisamente poco specifico all’interessamento delle fibre veloci (fibre di tipo II) e come vedremo in seguito, questo comporta una possibile componente di rischio per la muscolatura di un calciatore che suo malgrado debba sottoporsi ad un piano riabilitativo piuttosto protratto nel tempo. Ma torniamo ai parametri muscolari che maggiormente subiscono un cambiamento dopo un evento lesivo, come abbiamo detto a livello dell’articolazione del ginocchio, e dopo il conseguente periodo fisioterapico che ad esso consegue.

In primo luogo la muscolatura della coscia in toto (ossia i flessori e gli estensori) perdono in quanto a capacità di forza massimale, anche se per la precisione occorre puntualizzare che la perdita di forza a carico dei flessori ( bicipite femorale) è molto limitata (circa 8%), in confronto allo scadimento delle capacità di forza massimale degli estensori (quadricipite femorale), che possono ancora essere nell’arto leso, al 90° giorno post-operatorio nel caso di un legamento crociato anteriore, ancora minori di un 30-35% nei confronti delle capacità di forza dell’arto sano.

Ma il fatto, almeno a prima vista paradossale, è che nell’arto leso, a fronte di una più che logica perdita delle capacità di forza massimale, si registra, appunto paradossalmente un aumento delle capacità di resistenza muscolare. Facciamo un esempio pratico per meglio comprendere il significato di questa affermazione, invero un po’ strana. Prendiamo l’esempio di un atleta infortunato i cui valori di forza massimale isometrica a carico del quadricipite femorale, a circa novanta giorni dall’intervento operatorio, siano di 80 kg nell’arto sano e 54 kg nell’arto leso. Il deficit di forza a carico dell’arto leso sarà del 30% e sino a questo punto non ravvisiamo ovviamente niente di strano, la differenza registrata rientra infatti nel range medio riscontrabile in questo tipo di casistica. Se a questo punto chiediamo allo stesso atleta di mantenere una contrazione isometrica pari al 50% delle capacità di forza massimale, sia nell’arto leso, che nell’arto sano (ossia 40 kg per l’arto sano e 28 kg per la gamba lesa) sino ad esaurimento muscolare completo, ci accorgeremmo, direi con sorpresa, che la gamba lesa riesce a mantenere lo sforzo per un tempo maggiore di circa il 22%, in altre parole il quadricipite dell’arto leso è, a parità d’intensità percentuale di sforzo, più resistente di quanto non sia il quadricipite dell’arto sano. Come mai la muscolatura dell’arto leso diviene meno forte, come logicamente ci si può attendere, ma nel contempo più resistente, rispetto all’arto sano? La responsabilità, se di responsabilità si può parlare, è del programma fisioterapico, o meglio ancora della sua lunghezza. Come abbiamo già detto inizialmente, a giusta ragione un programma riabilitativo prevede tutta una serie di esercitazioni il cui denominatore comune è costituito da stimoli a bassa frequenza, che interessano principalmente la fibra di tipo I ed in un certo qual modo “mortificano” le caratteristiche della fibra di tipo II. Vale la pena ricordare che la caratteristica peculiare della fibra di tipo I è la scarsa velocità di contrazione ma la grande resistenza alla fatica, mentre le caratteristiche della fibra di tipo II sono diametralmente opposte: grande velocità di contrazione ma scarsa resistenza.

Un programma riabilitativo protratto per un periodo di tempo prolungato porta quindi ad un doppio inconveniente costituito, sia da un’atrofia selettiva delle fibre di tipo II, che da una conversione della tipologia delle fibre da tipo II a tipo I. Svelato l’arcano, possiamo facilmente comprendere come questo processo di atrofia selettiva e conversione tipologica delle fibre, costituisca, in un’attività come il calcio, un vero e proprio pericolo potenziale. Nel calcio infatti, come d’altronde anche in molti altri sport di squadra, come il basket, il rugby o la pallamano, all’atleta vengono richiesti sforzi di tipo esplosivo come balzi, accelerazioni o repentini cambi di direzione, in cui è necessario un rapidissimo reclutamento di fibre di tipo II. E’ quindi ovvio pensare che un massiccio cambiamento della tipologia delle fibre muscolari del quadricipite dell’arto leso, possa costituire un forte elemento “destabilizzante” nella meccanica del gesto.

Allora che fare?

Questo indice di maggior resistenza (22% circa) dell’arto leso rispetto al controlaterale sano, che abbiamo appunto desunto da una ricerca specifica da noi effettuata su calciatori infortunati, dovrebbe essere, a nostro parere, assunto come valore limite oltre il quale si può ragionevolmente supporre che il cambiamento della tipologia delle fibre muscolari stia divenendo eccessivo. A questo punto diviene estremamente necessario, per quanto possibile, inserire nel programma di lavoro delle esercitazioni specifiche di connotazione dinamica che riescano a sollecitare selettivamente le fibre di tipo II, per cercare di riequilibrare la tipologia muscolare dei due arti.

Come calcolare la resistenza muscolare della muscolatura estensoria dei due arti?

Vi proponiamo due metodi: il primo più “scientifico” ed il secondo, se vogliamo “un po’ più empirico” ma egualmente valido.

1° metodo: Calcolate attraverso l’Ergometer (Globus Italia, Codognè, Traviso) la forza massimale isometrica dei due arti separatamente. Selezionate il programma specifico denominato fatigue test, e chiedete all’atleta di mantenere, durante una contrazione isometrica, il 50% della forza massimale precedentemente calcolata per i due arti separatamente. Se con l’arto leso il vostro atleta riesce a mantenere la contrazione richiesta per un tempo superiore del 22% rispetto all’arto sano, è il momento di rivedere il programma riabilitativo.

2° metodo: Calcolate attraverso il metodo classico illustrato nel riquadro, la forza massimale del quadricipite del vostro atleta, sia per l’arto sano, che per l’arto leso. Chiedetegli poi di effettuare con il 50% del carico massimale una serie di ripetizioni ad esaurimento muscolare completo, sia per l’arto sano, che per l’arto leso. Se il numero di ripetizioni effettuate con l’arto leso, supera del 22% quelle effettuate con l’arto sano, il programma di lavoro dovrebbe essere senz’altro rivisto.Tabella 1 : valore percentuale di forza massimale in funzione del numero massimo di ripetizioni effettuate

Come calcolare “empiricamente” la forza massimale

Stabilite un carico e richiedete all’atleta di effettuare il massimo numero di ripetizioni possibili. Per ottenere un risultato preciso, cercate di individuare un carico con il quale l’atleta non riesca a effettuare più di 5-6 ripetizioni, eventualmente effettuate più prove, intervallate da un adeguato recupero (2’-3’). Se ad esempio il vostro soggetto è riuscito ad eseguire 5 ripetizioni con 60 kg, per calcolare la sua forza massimale, impostate la seguente proporzione:

60 : 85 = x : 100

Ossia 60 kg costituiscono l’85% delle capacità di forza del soggetto (i valori li desumete dalla tabella 1) come X, che costituisce il carico che rappresenta la vostra forza massimale, sta a 100 (ossia il 100% delle capacità di forza)

Nell’esempio specifico che abbiamo riportato il valore di forza massimale sarà:

60 * 100 / 85 = 70.5 kg.

Per chi volesse saperne di più…

Bisciotti GN., Bertocco R., Ribolla PP. Electromyographic analysis in the anterior cruciate ligament reconstruction: a new method for control and prevention.Medicina dello Sport. In Press
Bisciotti GN., Combi F., Forloni F., Petrone N. Stamina increase and change of muscular fibers typology in the reconstruction of anterior cruciate ligament. Journal of traumatology..Submitted.
Snyder-Mackler L., Ladin Z., Schepsis AA., Young JC. Electrical stimulation of the thigh muscle after reconstruction of the anterior cruciate ligament. J Bone joint Surg. 1991 ;73A : 1025-1036.

Gian Nicola Bisciotti
Dr. in scienze motorie

Il Fegato: fenomeni degenerativi

Quelli di maggiore importanza sono rappresentati dall’amiloidosi epatica e dalla steatosi. L’amiloidosi è sempre secondaria ad altre affezioni generalmente di lunga durata. Il fegato si presenta aumentato di volume, duro e pallido ed alla superficie di taglio spicca l’aspetto lardaceo.

All’esame istologico si rinviene la presenza di sostanza amiloide negli spazi perisinusoidali dei lobuli. La sostanza amiloide risulta formata essenzialmente da glicoproteine e da mucopolisaccaridi acidi solforati. Anche qui la sintomatologia è quella della malattia che sostiene il processo degenerativo. La steatosi epatica, o degenerazione grassa, è una manifestazione legata ad intossicazioni croniche, tra le quali occupa un posto preminente l’alcoolismo cronico.

Il fegato è discretamente aumentato di volume, con margini arrotondati e di consistenza notevolmente diminuita per cui il parenchima è flaccido.

La superficie di taglio appare giallastra con strie verdastre per imbibizione biliare e gli acini si distinguono con difficoltà. All’esame istologico si rileva che le cellule maggiormente interessate sono quelle perilobulari, il cui citoplasma appare pieno di grasso ed il cui nucleo è schiacciato ed addossato alla parete citoplasmatica; inoltre non mancano fenomeni di citolisi e piccoli focolai di necrosi. Negli stadi inoltrati, si osserva proliferazione dei fibroblasti che tendono ad avvolgere i singoli lobi. La sintomatologia è caratterizzata da anoressia, astenia, turbe dispeptiche e compromissione dello stato generale. I fenomeni di necrosi si riscontrano in molte affezioni epatiche che vanno dall’epatite virale all’atrofia giallo acuta. Quest’ultima è una gravissima affezione epatica caratterizzata dalla necrosi diffusa e dall’atrofia del parenchima epatico. Le cause che la provocano possono essere molteplici, tra queste ricordiamo:

l’epatite virale, la febbre gialla, la spirochetosi ittero emorragica, gravi tossicosi gravidiche, avvelenamenti. Il fegato appare notevolmente diminuito di volume e pertanto presenta la glissoniana rugosa, la sua consistenza è notevolmente ridotta ed il parenchima è particolarmente friabile. Il colorito varia dal giallo verdastro nelle fasi precoci, al giallo rossastro nelle fasi più tardive. All’esame microscopico, il reperto caratteristico è rappresentato dalla presenza di focolai di necrosi essenzialmente centrolobulari, diffusi ad un gran numero di cellule epatiche, mentre altre cellule presentano fenomeni di degenerazione grassa. La sintomatologia è caratterizzata da ittero intenso, disturbi gastro-intestinali, contrazioni muscolari, stato soporoso. I casi fulminanti portano a morte entro pochi giorni, altri casi, di minore gravità, possono decorrere in modo sub-acuto con possibilità di sopravvivenza ma con evoluzione cirrogena (cirrosi post-necrotica). Con il termine di epatite si definisce invece un processo infiammatorio che interessa il parenchima epatico, indipendentemente dall’agente etiologico responsabile. Le epatiti si dividono in acute e croniche, queste seguono alle prime, ma a volte possono insorgere come tali in modo primitivo. Tra le forme acute ricordiamo: le epatiti purulente e l’epatite virale; quelle purulente si identificano nell’ascesso epatico, generalmente causato dal bacterium coli, stafilococchi e streptococchi: la raccolta ascessuale è delimitata da una capsula che contiene materiale necrotico di colorito giallo verdastro; si manifesta con febbre di tipo settico, dolore all’ipocondrio destro con irradiazione alla spalla omolaterale, leucocitosi neutrofila. Un tipo particolare ne è l’ascesso amebico, conseguenza di una amebiasi intestinale; esso può manifestarsi in forma unica, più difficilmente sotto forma di microascessi multipli. Anche questa cavità è delimitata da una membrana, ma contiene un liquame necrotico e brunastro. In effetti in questo caso si tratta di una necrosi massiva enzimatica del tessuto epatico. La sintomatologia è caratterizzata dall’improvviso rialzo termico durante una amebiasi intestinale e da dolore puntorio in sede epatica. L’epatite virale è una malattia infettiva contagiosa, generalmente a decorso acuto con andamento benigno, ma con possibilità di volgere verso la cronicizzazione a cui può seguire anche una particolare forma di cirrosi e che a volte, sia pure molto raramente, può complicarsi per l’insorgenza dell’atrofia giallo acuta del fegato. Attualmente se ne conoscono due tipi: l’epatite epidemica o iniettiva, provocata dal virus A, e l’epatite da siero o post trasfusionale, provocata dal virus B. Pur essendo certi che l’affezione è determinata da un virus filtrabile, ancora il virus responsabile non è stato isolato, né la scoperta dell’antigene australia, isolato dal siero di un australiano convalescente di epatite, ha perfettamente chiarito l’importanza che spetta a questo antigene, in quanto l’antigene si può riscontrare anche in soggetti che non hanno mai sofferto di epatite ed, in quelli affetti da epatite, il test HAA (antigene australia) è positivo con una variabile percentuale dal 75 al 25%. Il reperto anatomico è di notevole interesse ed è perfettamente conosciuto grazie alla biopsia epatica effettuata in stadi diversi del decorso della malattia. Nelle prime fasi si riscontrano fenomeni degenerativi isolati, a cui seguono focolai di necrosi cellulare che, nella fase precedente l’ittero, sono isolati, mentre successivamente diventano più estesi. Nella fase itterica, si osservano inoltre degenerazione vacuolare del, citoplasma ed alterazioni palloniformi del nucleo delle cellule interessate. La caratteristica fondamentale è rappresentata dalla presenza, nel citoplasma di queste cellule, di piccoli corpi rotondeggianti, detti corpi acidofili per le loro qualità tintoriali. Nei canalicdli biliari situati in vicinanza delle cellule colpite si riscontrano piccoli trombi biliari; i focolai di necrosi non sono estesi, ma disseminati sulla superficie del lobulo, prevalentemente nelle zone centrali; in essi le fibre argentofile presentano lievi alterazioni, mentre si riscontrano cellule di Kupffer, mononucleati di tipo linfomonocitario, rari neutrofili, eosinofili e fibroblasti. L’infiltrato infiammatorio è più accentuato in prossimità degli spazi portali, dove i canalicoli biliari presentano fenomeni distruttivi e degenerativi accanto a tentativi di neoformazione. Segue la fase risolutiva, caratterizzata dalla regressione dei fenomeni necrotici e dalla comparsa di cellule rigenerate che assumono il normale orientamento laminare; gli infiltrati si riducono man mano e ultimi a scomparire sono quelli localizzati negli spazi portali; ancora tuttavia per settimane o mesi, si possono riscontrare fibroblasti, fibrocidi e cellule istioidi, espressione di attivazione del mesenchima. La sintomatologia variabile da caso a caso è fondamentalmente caratterizzata da astenia, febbre e anoressia. L’ittero in linea di massima insorge con la caduta della febbre, ma in molti casi l’infezione virale decorre senza ittero. Nella forma tipica la malattia si risolve in qualche settimana; nell’ 1 % dei casi, il decorso è molto grave e conduce a morte in breve tempo con un quadro di atrofia giallo acuta; nel 5-10% dei casi si protrae per un periodo di 3-4 mesi ma si conclude con la guarigione, in altri casi ancora evolve nella forma cronica. Le epatiti croniche si suddividono in: epatiti croniche evolutive, ed epatiti croniche stabilizzate, queste ultime rappresentate dalla tubercolosi del fegato dall’epatite luetica e dalla fibrosi portale. Per mezzo della biopsia epatica è stato possibile conoscere con precisione il quadro istologico caratterizzato da:

infiltrazione infiammatoria uniforme di piccoli tratti portali, costituita da linfociti, istiociti e qualche plasmacellula, raramente neutrofili ed eosinofili; modesto aumento del numero dei duttuli, architettura lobulare rispettata, mentre alcuni epatociti periportali possono presentare aspetti degenerativi. Si osservano, inoltre, modeste proliferazioni mesenchimali focali nei lobuli e rari residui macrofagi carichi di pigmento. Clinicamente si manifesta con astenia ed epatomegalia e mancano i segni di una malattia cronica vera e propria. Nel siero dopo il primo anno il tasso delle transaminasi può oscillare tra i limiti della norma ed un lieve aumento; le gamma globuline si mantengono normali. La prognosi è buona, in quanto difficilmente si ha l’evoluzione in cirrosi. L’epatite cronica aggressiva si differenzia dalla forma precedente, per più gravi alterazioni portali e periportali. Le relazioni tra questa e l’epatite virale non sono sempre dimostrabili, ma in molti soggetti risultava nell’anamnesi una infezione virus epatitica, mentre in altri è stato isolato dal siero l’antigene australia. Dal punto di vista istologico, l’elemento caratteristico è rappresentato da una grave infiammazione periportale aggressiva che supera i limiti del tratto portale e si estende oltre la lamina limitante con necrosi del parenchima periferico. Nei tratti portali piccoli e grandi si riscontrano infiltrazioni infiammatorie costituite da:

linfociti, istiociti e plasmacellule, scarsi neutrofili ed eosinofili. Contemporaneamente sì determina una proliferazione dei duttuli biliari. Attorno alle cellule epatiche si accumulano fibre collagene e cellule mesenchimali da dove, in seguito, si formeranno setti di tessuto connettivo che si estenderanno entro il parenchima, con formazioni di setti intralobulari alterandone la normale struttura. La combinazione della necrosi parcellare, della infiltrazione infiammatoria e della proliferazione dei canalicoli biliari, sta a dimostrare lo stato di attività della noxa morbigena. La triade sintomatologica è rappresentata da: astenia, subittero o ittero franco, dimagrimento. L’epatite cronica aggressiva non corrisponde alla cirrosi, sebbene in questa possa evolvere con una notevole frequenza; in alcuni casi si può avere la guarigione clinica, in altri una relativa stabilizzazione, meno frequente è l’esito nei coma epatico per atrofia sub-acuta dei fegato- L’epatite lupoide, o epatite cronica di Waldestrom, è un’affezione lentamente progressiva che si manifesta prevalentemente in ragazze giovani in coincidenza della crisi puberale o subito dopo questa. La definizione di epatite lupoide è nata dalla frequente presenza in questi soggetti di cellule L.E. (cellule riscontrate per la prima volta nelle persone affette da lupus eritematoso, ma non specifiche di questa malattia). Facilmente si riscontra un’associazione con la tiroidite di Hashimoto o con colite ulcerosa o con artralgie o periarterite nodosa, motivo per cui va considerata come una malattia autoimmune. Dal punto di vista istologico il quadro è dominato da estesi infiltrati linfomonocitari in prossimità degli spazi portali, infiltrazioni di plasma-cellule con zone di necrosi cellulare in periferia dei lobuli. La tendenza all’evoluzione cirrogena è notevole. La sintomatologia clinica è dominata da disturbi mestruali, astenia, febbricola, subittero, ipergammaglobulinemia e, nella fase avanzata, da varici esofagee. Le cirrosi epatiche sono affezioni a decorso cronico progressivo, che portano nella totalità dei casi alla grave insufficienza epatica, caratterizzate dal punto di vista microscopico da necrosi e steatosi cellulare, fibrosi diffusa e principalmente dall’intimo sovvertimento del piano strutturale del fegato. Le due forme principali di cirrosi sono:

la cirrosi comune con le sue varietà, e la cirrosi biliare. La cirrosi comune viene ancora suddivisa in: cirrosi micronodulare, macronodulare e mista. In effetti il quadro clinico ed anatomopatologico sono sempre uguali, fatta eccezione per la grandezza dei noduli. La forma paradigmatica delle cirrosi è l’a cirrosi atrofica di Morgagni Laennec. Il fegato si presenta di volume rimpicciolito con capsula ispessita, la superficie è cosparsa di noduli di varia grandezza e la sua consistenza è sempre aumentata. La superficie di taglio si presenta di colorito grigio con sfumature giallastre e con aree nodulari multiple delimitate da tessuto connettivale sclerotico. Microscopicamente spicca la profonda alterazione della struttura lobulare. Gli spazi porto biliari sono riuniti tra di loro da connettivo collageno, il quale si spinge nello spessore dei singoli lobulì suddividendoli. In questo tessuto connettivo si rinvengono piccoli vasi venosi e canalicali biliari trombizzati. A volte questo tessuto, specie nelle fasi iniziali, è infiltrato da elementi infiammatori. Molte cellule presentano gravi alterazioni regressive ed infiltrazione grassa, altre sono in preda a necrosi coagulativa. Accanto a queste alterazioni, si rinvengono le formazioni di pseudolobuli, da parte di cellule epatiche variamente orientate, non radialmente e senza precisi rapporti con la vena centrolobulare, il che esprime la rigenerazione nodulare. Le cellule rigenerate sono di dimensioni maggiori della norma e presentano due o più nuclei. Ne deriva un pervertimento strutturale del parenchima epatico, che costituisce il quadro caratteristico della cirrosi. La sintomatologia è legata alla manifestazione del versamento ascitico, poiché, prima della comparsa dell’ascite, i segni clinici sono molto vaghi e rappresentati da astenia, anoressia, meteorismo. Nel periodo ascitico, compaiono edemi agli arti inferiori, varici esofagee, e lo stato generale appare notevolmente compromesso. Le proteine del sangue presentano un’inversione del normale rapporto albumine globuline, per diminuzione delle albumine ed aumento delle gamma globuline. La prognosi è sempre infausta. La cirrosi a grossi nodi si identifica nella cirrosi post-necrotica che segue a necrosi epatiche massive quasi sempre in corso di epatite virale. Quello che differenzia questo tipo dalle altre forme di cirrosi è la presenza di vaste aree di fibrosi con voluminosi noduli di rigenerazione, per cui si notano aree depresse e compatte di fibrosi che interessano estesi tratti di fegato e noduli di rigenerazione, in numero limitato, di enormi dimensioni. Dal punto di vista microscopico si differenzia per la presenza di zone in cui è ancora riconoscibile il normale parenchima epatico, per la rigenerazione eccessiva, ma con riproduzione della normale struttura lobulare, e per l’assenza o quasi di degenerazione grassa degli epatociti. Nella cirrosi biliare, a differenza delle forme sopradescritte, il fegato è ipertrofico per il prevalere dei fenomeni di rigenerazione sulla necrosi. La superficie è generalmente liscia ed il colorito del parenchima è verdastro. Istologicamente si reperta una grave infiammazione a livello degli spazi portali, che si dirige alla periferia dei lobuli seguendo i dotti biliari interlobulari, il cui lume contiene elementi infiammatori nonché trombi biliari. Successivamente si ha un aumento del tessuto connettivale negli spazi portali e da qui si infiltra tra i lobuli suddividendoli. Negli stadi terminali il quadro miscroscopico è sovrapponibile a quello della cirrosi comune. Le principali affezioni delle vie biliari sono: l’angiocolite, la colecistite, la calcolosi della colecisti e le neoplasie. L’angiocolite è un processo infiammatorio delle vie biliari intra ed extra-epatiche, sostenuta da germi diversi (bacterium coli, stafilococchi, streptococchi). L’alterazione anatomica consiste in un turgore della mucosa, desquamazione dell’epitelio, infiltrazione leucocitaria ed iperproduzione di muco. Ne deriva che la sintomatologia è dominata dalla febbre, dolore all’ipocondrio destro ed ittero. Per colecistite si intende un processo infiammatorio della vescichetta biliare che riconosce nella etiologia batteri diversi (bacillo del tifo, bacterium coli, ed alcuni germi anaerobi). Le alterazioni anatomiche consistono in edema della mucosa, infiltrazione leucocitana, ipersecrezione di muco. Quando si produce un’occlusione della colecisti per eccessivo edema dei collo, si determina una notevole dilatazione della colecisti che va sotto il termine di idrope; ove il contenuto si trasformi in essudato purulento, si ha l’empiema della colecisti. I segni clinici della colecistite infiammatoria sono: dolore a tipo colica ad insorgenza in sede epigastrica o nell’ipocondrio di destra con irradiazione alla spalla destra, brividi, febbre, nausea, vomito biliare, raramente subittero. La colelitiasi è una affezione morbosa, caratterizzata dalla presenza di calcoli nella colecisti. I calcoli possono essere costituiti da colesterina o da bilirubinato di calcio, oppure sia dall’una che dall’altro. Possono essere di varia grandezza, da un grano di pepe ad un uovo di piccione, multipli o unico. Possono passare inosservati per tutta la vita oppure dar luogo a manifestazioni dolorose ed infiammatorie, in tal caso il quadro clinico non differisce sostanzialmente da quello della colecistite infiammatoria. A volte i calcoli di piccola dimensione possono migrare nel coledoco ed occluderlo determinando ittero per stasi biliare. I principali tumori delle vie biliari sono: il carcinoma della cistifellea ed i carcinomi dei dotti biliari extraepatici. lì carcinoma della colecisti può presentarsi sotto forma di adenocarcinoma di aspetto gelatinoso, cancro ad epitelio piatto e scirro. Questo infiltra tutta la colecisti e tende ad infiltrare anche gli organi vicini. La sintomatologia facilmente viene confusa con quella di una banale affezione della colecisti, differisce essenzialmente per la rapida compromissione dello stato generale. I carcinomi dei dotti biliari extraepatici si possono localizzare al coledoco, all’epatico comune, alla papilla ed al cistico. Tranne che in questa ultima evenienza, la sintomatologia è caratterizzata da ittero ingravescente, febbricola, epatomegalia, anoressia; ovviamente nella localizzazione dei cistico manca l’ittero.

 

VEDI ANCHE:
Il fegato: costituzione anatomica
Il fegato: le funzioni
Il fegato: la bile
Il fegato: esplorazione funzionale

Un rigraziamento speciale
all’ autore e redattore dell’ articolo: Enrico De Stefani

Il Fegato : esplorazione funzionale

Tutte le funzioni del fegato sopra ricordate sono state utilizzate per la messa a punto di diverse prove conosciute con il termine di funzionalità epatica.

Tra queste ricordiamo: la determinazione della bilirubinemia, l’elettroforesi delle proteine sieriche, le prove di labilità colloidale, lo studio dell’attività protrombinica, la determinazione di alcuni enzimi, la prova di carico con tetrabromosulfonftaleina, la prova di carico con alcuni zuccheri, la colesterolemia; a parte vanno considerate la biopsia epatica e la scintigrafia. Il dosaggio nel sangue della bilirubina esplora il metabolismo dei pigmenti biliari.

La bilirubinemia si divide in totale, diretta ed indiretta; normalmente il tasso di bilirubina totale oscilla tra 0,50 e 0,90 mg %, ed è rappresentata quasi esclusivamente dalla quota indiretta cioè della bilirubina non coniugata dal fegato.

I termini di diretta ed indiretta si riferiscono alle modalità di reazione del siero di sangue con il reattivo di diazonio (reazione di Van Den Bergh): la diretta reagisce con il sale dando un colorito roseo, l’indiretta reagisce dopo che il siero di sangue è stato trattato con alcool. Nel primo caso, vuoi dire che, se vi è aumento di bilirubinemia, questo è dovuto all’eccesso di bilirubina già coniugata con acido glicuronico nella cellula epatica, nel secondo caso, si tratta di un aumento di bilirubina non coniugata cioè libera. La capacità di metabolizzare da parte del fegato la bilirubina può essere studiata iniettando per via venosa una certa quantità di bilirubina allestita da un prodotto commerciale. Con l’elettroforesi delle proteine sieriche e le cosiddette prove di labilità colloidale, si esplora il metabolismo proteico; con questa indagine è inoltre possibile ottenere il frazionamento delle varie proteine del siero, facendole migrare su carta in un campo elettrico. Le proteine del siero hanno la seguente composizione percentuale: albumine 50%, globuline alfa1 7%, globuline alfa2 9%, globuline beta 14%, globuline gamma 20%. Poiché le albumine vengono sintetizzate dal fegato e le globuline in parte dal fegato ed in parte dai linfociti e plasmacellule, in particolar modo le gamma, ne deriva che nelle gravi malattie epatiche il quadro elettroforetico si modificherà nel senso di una diminuzione delle albumine, mentre si avrà un netto aumento delle gamma globuline, espressione di reazione mesenchimale ed aumentata sintesi di anticorpi. Pertanto le cosiddette prove di labilità colloidale risentono essenzialmente della composizione percentuale delle proteine sieriche. Ne deriva che queste prove non sono collegate specificamente alla funzionalità epatica, in quanto saranno positive in tutte quelle affezioni che comportano delle modificazioni del protidogramma, indipendentemente dallo stato della cellula epatica. Purtuttavia, rivestono sempre una certa importanza per il loro particolare comportamento nelle diverse affezioni del fegato. Le più comuni sono:

la reazione di Takata, quella di Gros, di Hanger, di Kunkel, di Weltmann, e di Wunderly-Wuhrmann. Maggiore importanza assume la determinazione del tempo di protrombina, che esplora la sintesi epatica della protrombina e dei fattori V, VII e X della coagulazione. Per la formazione di questi è anche indispensabile la presenza di vitamina K, che, come è stato ricordato sopra, promuove la trascrizione di un RNA messaggero specifico che trasporta l’informazione genetica al citoplasma dove dovrà avvenire la sintesi ·dei fattori della coagulazione e della protrombina. E’ chiaro che il mancato assorbimento di vitamina K, per ostacolato deflusso biliare nel duodeno, o una grave compromissione della cellula epatica, si ripercuoterà negativamente sullo svolgimento del normale processo di coagulazione, per deficienza della protrombina e dei fattori V, VII e X. E’ a conoscenza di tutti che il principale dato di laboratorio in corso di epatite virale, è rappresentato dall’aumento delle transaminasi nel siero di sangue. Sono questi degli enzimi che catalizzano alcuni processi di transaminazione che avvengono nella cellula epatica, nel miocardio ed in altri organi, mentre nel siero di sangue normalmente si trovano in modesta quantità (15-30 U W). L’aumento di questi enzimi nel siero sta a significare una necrosi cellulare e precisamente, nelle affezioni epatiche che si accompagnano a necrosi cellulare, aumenta essenzialmente la transaminasi glutammico-piruvica, mentre, in caso d’infarto cardiaco, si ha un prevalente aumento della glutammico-ossalacetica. Tra gli altri enzimi che assumono importanza nelle effezioni epatiche ricordiamo: la fosfatasi alcalina che aumenta notevolmente in caso di itteri ostruttivi; l’ornitin-carbamil transferasi che aumenta nella prima settimana dell’epatite virale, l’aldolasi, che ha un comportamento analogo all’enzima precedente e le esterasi, che diminuiscono nelle gravi epatopatie. La funzione escretrice del fegato viene esplorata per mezzo della prova da carico con bromosulfonftaleina. Questa sostanza, iniettata per via endovenosa, viene trasportata al fegato legata alle albumine, qui viene coniugata con il glutatione e la cisteina e successivamente viene eliminata con la bile. In un fegato normale entro 45 minuti dalla somministrazione, sarà quasi totalmente eliminata e nel sangue dei soggetti si trova una concentrazione della sostanza inferiore al 5% del totale. Questi valori sono aumentati in due casi: o per mancata escrezione del colorante o per ostacolo di penetrazione nella cellula epatica. Attualmente caduta in disuso, la prova di carico con alcuni zuccheri, e precisamente con il galattosio, veniva utilizzata per l’esplorazione del metabolismo glucidico. Normalmente il galattosio viene trasformato in glucosio dalla galatto-transferasi e, nel sangue, dopo un certo periodo di tempo, il contenuto in galattosio ritorna normale. Nelle epatopatie croniche, per la compromissione della capacità della conversione in glucosio, si ha un aumento della galattosemia e comparsa di galattosuria. Anche la determinazione della colesterolemia totale e frazionata può fornire ragguagli sullo stato funzionale del fegato, poiché il colesterolo viene sintetizzato nella cellula epatica a partire dall’acetil-coenzima A, e, successivamente, in parte esterificato con acidi grassi. Il colesterolo totale aumenta nei casi di ostacolo al deflusso biliare (itteri ostruttivi) e diminuisce nelle gravi affezioni del fegato, in cui pure si ha una riduzione del rapporto tra la parte esterificata ed il colesterolo totale. A queste comuni prove tendenti a mettere in evidenza lo stato funzionale dell’epatocita, si aggiungono altre due che in questi ultimi tempi hanno assunto notevole importanza e per mezzo delle quali è possibile venire a conoscenza della morfologia della cellula epatica in condizioni normali e patologiche. Si tratta della biopsia e della scintigrafia epatica. La biopsia si pratica con un particolare ago, è assolutamente priva di pericoli, e permette di esaminare al microscopio un preparato istologico ottenuto da un frustolo di tessuto epatico asportato. Anche la scintigrafia epatica si è dimostrata di notevole interesse ed è di facile attuazione. Si pratica iniettando endovena il rosso bengala marcato con J131, oppure l’oro colloidale marcato con Au198. Normalmente si ottiene una mappa epatica scintigrafica con una distribuzione uniforme della sostanza; nelle epatiti croniche, nelle cirrosi, nelle necrosi, si avranno delle immagini con eventuali lacune, disomogeneità di captazione ed altre deformità. Nelle cirrosi, oltre ad una scarsa ed irregolare captazione epatica, si avrà la distribuzione della sostanza radioattiva nel parenchima splenico. Ricordiamo infine che è possibile prendere visione diretta della superficie epatica, per mezzo della laparoscopia, che si attua mediante un particolare apparecchio ottico introdotto nella cavità addominale, attraverso una piccola incisione dei muscoli addominali. Quando il fegato non è capace di assolvere sia pure in parte alle sue varie funzioni, si manifestano quei quadri clinici conosciuti con il termine di insufficienza epatica. In base alla gravità si distinguono una piccola ed una grande insufficienza epatica; la piccola insufficienza epatica è sostenuta da una moderata riduzione dell’attività del fegato, ed è caratterizzata da: digestione laboriosa, flatulenza, sonnolenza post-prandiale, intolleranza a determinati cibi, specie ai grassi, fritti, particolare sensibilità agli alcolici; sovente cefalea, turbe dell’alvo che tende verso la stipsi, al mattino bocca impastata, periodi di astenia e di instabilità del carattere. Tutte queste manifestazioni, in linea di massima, sono transitorie, ma tendono sempre a ripresentarsi in occasione di disordini alimentari, eccessivi strapazzi, stress emotivi. La grande insufficienza epatica si osserva nella fase terminale di alcune epatopatie croniche, o anche in gravi epatiti acute, e molto frequentemente sfocia nel coma epatico. Dal punto di vista sintomatologico si distingue un primo stadio caratterizzato essenzialmente da eccitazione, ed un secondo in cui domina la depressione. Il primo periodo, o dell’eccitazione, è dominato dall’anoressia, astenia, stato confusionale, irritabilità, tremori prevalentemente localizzati agli arti superiori, tendenza alla rigidità muscolare. Questo primo stadio può essere reversibile, oppure in breve tempo può trapassare nel secondo stadio che si contrappone al primo per lo stato simil soporoso del paziente. Questo è assente, ma risponde, sia pure in modo vago, se viene interrogato, l’alito è sgradevole (foetor hepaticus), i tremori muscolari sono accentuati, la cute è secca, le mucose visibili sono ricoperte da crosticine ematiche per piccole emorragie; gradatamente la situazione precipita sfociando nel coma. L’ammalato è in pieno stato soporoso, non reagisce agli stimoli, le pupille sono dilatate, compie dei movimenti incoordinati ed afinalistici, nella fase terminale interviene il collasso cardio-circolatono e l’exitus. In certi casi, con idonea terapia, il coma epatico può regredire, come per esempio quando sia provocato da tossici di origine intestinale; in altri, laddove esiste una grave sofferenza epato-cellulare, si conclude con la morte. Il fegato come tutti gli altri organi può andare incontro: ad alterazioni del circolo sanguigno, a fenomeni degenerativi, necrotici ed atrofici, a fenomeni infiammatori acuti e cronici, a fenomeni di sclerosi che in questo organo assumono degli aspetti peculiari, a neoformazioni di natura benigna e maligna, I disturbi di circolo possono essere sostenuti da una stasi venosa acuta o cronica, o da uno stato d’ipertensione portale. La stasi venosa è sempre conseguenza di una insufficienza cardio-circolatoria di tipo destro per gravi affezioni cardiache, o cardio-polmonari o per pericardite adesiva. Nella forma acuta, il fegato si presenta aumentato di volume, con margini arrotondati e capsula tesa; la superficie di taglio è di colorito cianotico, con disegno lobulare accentuato le cui zone centrali sono depresse, di colorito rosso, circondate da alone più chiaro. Istologicamente spicca la dilatazione delle vene sottolobulari e centrolobulari. Nella stasi cronica, l’organo è ridotto di volume, con capsula ispessita e margini assottigliati. Alla superficie di taglio, si osserva il quadro cosiddetto di fegato a noce moscata, per l’alternarsi di zone rosso scuro con zone di colorito giallastro. Dal punto di vista microscopico si nota una dilatazione delle vene centrolobulari in prossimità delle quali mancano le cellule epatiche, mentre quelle limitrofe presentano infiltrazione grassa. Nei gradi estremi, la parte periferica dei lobuli viene ad essere circondata da tralci fibrosi. La sintomatologia è quella della affezione fondamentale che ha causato la stasi. I disturbi di circolo conseguenti ad ipertensione portale, col tempo, portano alla cirrosi epatica di cui si dirà in seguito.

Tessuto epatico al microscopio. Notare la forma grossolanamente esagonale delle cellule. A destra una cellula epatica nel dettaglio.

 

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Un rigraziamento speciale
all’ autore e redattore dell’ articolo: Enrico De Stefani